Vecchio scarpone.

Alla ricerca della mia poesia.

A volte la chiave è vivere il presente.

A volte il presente è la chiave per capire quello che viene prima.

E in questo mio presente mi osservo.

Con quella lente nitida che nasce dall’aver abbandonato tutto.

Per poter andare oltre.

Guardo in basso, di nuovo, la punta dei miei piedi.

Piedi coperti da stivali logori, eppure splendidi.

Come gli anni.

Calpesto pietre nuove, raccolgo scontrini diversi, non trovo più fototessere abbandonate.

Ma mi chiamano per noleggiare una macchina per le fototessere.

E io non so cosa rispondere.

Io osservo il volto.

Non chi l’ha creato.

Non riesco a buttare via, questo vecchio scarpone.

Fa parte di me.

Perché la strada più importante l’abbiamo fatta insieme.

Le mete più grandi le abbiamo conquistate insieme.

Perché quando hai condiviso così tanto.

Quando hai condiviso tutto.

È impossibile abbandonare.

Si può solo conservare. Per sempre.

In uno scarpone logoro.

Riparato più volte.

E tornato logoro.

Eppure splendido.

Ed è così.

Osservando, ancora,

la punta dei miei piedi.

Che inseguo la poesia che ho perso.

Inseguo la pelle che ho morso.

Inseguo quello che ero. E ciò che sono.

E ciò che sono mi rincorre.

E la mia mano inizia a tremare.

Trema. Non importa.

Vuol dire che è viva.

Trema. Non importa vuol dire che ama.

Ama la vita.

Ama un vecchio scarpone.

Cioccolato sulla guancia.

Scusa... hai del cioccolato sulla guancia.

E va beh, non mi sembra grave, evidentemente ho ricevuto un bacio da qualcuno che aveva appena bevuto una cioccolata calda, e come biasimarlo, con questo tempo.

Stasera sento il bisogno di cose vere. Come una macchia di cioccolato su una guancia. Bisogno di quelle cose lì, assolutamente imperfette e fuori posto che a qualcuno possono anche dare fastidio ma che fanno comunque parte della vita. Ecco, sì della vita. E hanno sempre un odore particolare le cose della vita.

Non che le altre non le fossero...bah non lo so è tutto abbastanza relativo se ci penso bene...ad esempio era tutto vero quando ho chiesto a mia sorella se era sicura di voler salire sulla mia macchina visto che era piena di spazzatura, che volendo un barbone avrebbe potuto viverci essendoci dentro ancora le tende e i sacchi a pelo delle mie compagne di viaggio di quest'estate e che c'erano pure i fazzoletti per pulire il sederino dei bambini.

Quando mia sorella è salita sulla macchina e ha visto incastrati sotto il freno a mano i fazzoletti per pulire il sederino dei bambini non ci voleva credere.

Mi ha detto ma è vero cavolo pensavo fosse una battuta. Io non sono mai stata molto brava a fare le battute. Forse è per quello che faccio tanti danni. Per poterci ridere su visto che non riesco a fare tante battute.

Ad ogni modo ho bisogno di cose vere come il fatto di pulire la cacca dei bambini. Che vi assicuro, per chi non avesse mai avuto la fortuna di veder cambiare un pannolino, non è una cosa tanto bella da vedere, eppure allo stesso tempo è abbastanza commovente. Pure per me me che sono così cinica che la mia più cara amica ha avuto l'altro giorno il coraggio di dirmi: Anna io non ti vedo proprio nei panni di una mamma. Beh nemmeno io se è per questo.

Solo che quando te lo senti dire, da chi ti conosce così bene, è diverso. È diverso perchè tante volte diciamo le cose ciniche solo perché in realtà le vorremmo tantissimo. In questo caso no. Non vorrei essere mamma e chi mi conosce bene non mi vede bene a fare la mamma. Perfetto. Per una volta l'apparenza rispecchia la sostanza. Ciò non toglie che quando me lo sono sentita dire mi ha fatto un effetto totalmente diverso rispetto a quando lo dico io.

E questo bisogno di verità nasce da un sacco di cose.

La prima è che da un mese e mezzo mi è cambiata la vita e che mentre la stavo cambiando io ho sentito il bisogno di dire a chi stavo lasciando, un sacco di parole. E che ho capito che tutte quelle parole erano assolutamente prive di senso visto che me ne stavo andando. E in quel momento ho scoperto per la prima volta, che a volte, le parole sono davvero inutili, e mi è pure venuta una sorta di rifiuto nei confronti di certe parole.

La seconda cosa è che un mese e mezzo fa contemporaneamente al non avere più internet a casa e al non avere nemmeno la televisione ho scoperto lost. E mi sono guardata 4 serie di lost in un mese. E ho raggiunto dei tali livelli di alienazione che quando passava il tram in via po e tremava il pavimento pensavo fosse il mostro nero di lost.

E allora ho pensato che fosse giunto il momento di riallacciare i contatti con la realtà.

Stasera per la prima volta ho guardato di nuovo il telegiornale.

C'è un problema. Tra virus che si modificano, madri brasiliane che piangono nel monolocale sgualfo del figlio assassinato scoperto trans, ragazze americane sospettate di omicidio dipinte come creature che guardano la realtà con gli occhi colmi della purezza di un bambino, alluvioni in Liguria e operatori telefonici visionari....beh è stato come guardare una puntata di lost.

E ora mi sento un pò confusa.

E penso che ci siano poche certezze nella mia vita.

Oltre ad una macchia di cioccolato sulla guancia e dei fazzoletti per pulire il sederino dei bambini nella macchina.

E che intendo tenermele strette queste poche certezze. Per quanto imperfette.


Buon Sashimi a tutti.

Non lo so…c’è qualcosa in me che non va…uno spirito di ribellione che forse tanto bene non va. Lo sa bene mia sorella dopo avermi vista all’aeroporto di Madrid insultare i poliziotti per una bottiglia di tequila. Che detto così sembra molto puerto escondido ma in realtà è tutta un’altra storia molto più tipo sette anni in tibet se devo dirla tutta. È quella storia di quel viaggio lì che ho fatto in Messico dove ho lasciato il cuore. Dove ho provato qualsiasi tipo di emozione sia possibile forse provare. Ansia, allegria, divertimento, paura, felicità, misiticismo, lutto, amore. Perché in tre settimane in messico c’è stato un po’ di tutto. Per cui in quella bottiglia di tequila non c’era la tequila per me c’era tutto (oltre al fatto che non era una bottiglia di tequila, ma due bottiglie di tequila più una di mezcal da regalare agli amici ovviamente). Fatto sta che arrivata lì al check-in a Madrid dopo un viaggio iniziato giusto 24 ore prima, quei poliziotti mi hanno confiscato le bottiglie sigillate dentro un sacchetto del duty-free di Città del Messico. E io non ci ho più visto. Perché avevo comprato tutto apposta al duty-free di Città del Messico per non avere problemi visto che nello zaino non ci stava più nulla. Poi voglio dire, dopo tutto quel tempo passato in Messico il mio spagnolo era anche tornato abbastanza scorrevole. Abbastanza scorrevole da farmi portar via a forza da mia sorella prima che mi portassero da qualche altra parte. Devo dire che un anno fa piuttosto che tornare a Torino mi sarei anche fatta portare da un’altra parte ma ad ogni modo, dopo essermi fatta portare via da mia sorella ho cercato di calmarmi e per calmarmi ho pensato di bermi una cocacola. E una volta arrivata al bar due, tre, un piano sopra il ceck-in, non lo so più ho ricordi confusi di quell’aereoporto lì di Madrid, con l’aria un po’ sconvolta tipo sette anni in Tibet, mi sono accorta di aver lasciato lo zaino dai poliziotti. Tre, due, un piano sotto. E per fortuna mia sorella ha deciso di accompagnarmi e sono tornata da quei poliziotti che mi avevano preso le mie bottiglie e che avevo insultato nel mio spagnolo ringiovanito dopo quel viaggio in Messico e con aria da pecorella smarrita tipo sette anni in Tibet ho chiesto notizie del mio zaino. Per fortuna c’era stato il cambio della guardia per cui mi hanno portato nello sgabuzzino dove ritirano le cose confiscate e mi hanno ridato il mio zaino mentre io cercavo le mie bottiglie. Non le ho più riviste le mie bottiglie però mi sono poi bevuta una cocacola rischiando di perdere la coincidenza per tornare a Torino.

Ad ogni modo ogni tanto mi prende questo spirito irriverente e non ci posso fare nulla. Tipo l’altra sera c’avevo un appuntamento alle sette per un aperitivo. Solo che sono rimasta bloccata in ufficio perché dovevo chiudere un lavoro e ho finito il lavoro alle 9. E allora sono uscita dall’ufficio alle nove e c’avevo una fame incredibile e sono arrivata con la macchina in piazza vittorio e ho visto che c’erano i carabinieri che fermavano per fare i controlli per l’alcool. E ho pensato mah guarda spero che mi fermino così li prendo un po’ in giro visto che non ho bevuto nulla e sto per svenire dalla fame. Solo che non mi hanno fermata nonostante la sgommata. E poi non trovavo parcheggio ed ero stanca e affamata e un po’ stufa per cui in via Po il semaforo è diventato rosso e io non c’avevo voglia di aspettare per cui ho pensato va beh passo col rosso. Per fortuna all’ultimo mi sono accorta che c’erano i carabinieri al semaforo nel senso opposto al mio per cui ho inchiodato di nuovo con una sgommata. Perché a quel punto mi avrebbero fermata sì. E non avrei mica potuto prenderli più di tanto in giro. E poi ci sono di quelle serate tipo ieri sera al regio che c’era un concerto che è stato proprio un gran concerto di Sakamoto. E visto che i biglietti costavano poco c’era un sacco di gente, c’era tutta la gente che vuole farsi vedere in quelle occasioni lì. E io mi ero vestita super bene, ma non per quella serata lì ma perché quando vado al regio una volta ogni morte di papa penso, ma si dai per una volta mi vesto tutta elegante che mi piace una volta ogni tanto vestirmi elegante. E il concerto è stato una roba fighissima e forse mi hanno ipnotizzata tanto che ad un certo punto stavo per buttarmi giù. Volevo camminare su quelle teste mezze illuminate dalla luce del proiettore e buttarmi giù e raggiungere sakamoto per poi superarlo e sfondare lo sfondo dove proiettavano tutte quelle robe che mi stavano facendo andare fuori di cervello. E finito quel concerto ad un certo punto è mi sembrato di sentire qualcuno urlare “tofuuuuu”. E non ci ho più visto perché non lo so ero un po’ irriverente e un po’ ipnotizzata per cui ho pensato che effettivamente non so il giapponese se non per il sushi e che per me urlare sushi ad un giapponese è un gran complimento e allora mi sono messa a urlare “susshiiiiiii, nighiriiiiiiiiiiii”. Un po’ come urlare “bravooooooooo, grandeeeeee”. Il tono era quello e quelle parole erano le uniche parole che conoscevo in giapponese.

Il mio compagno di concerto e pure abbastanza di vita non era molto della mia stessa idea. E forse nemmeno i miei vicini di poltrona. E forse volevo solo essere un po’ irriverente. Ma il concerto mi è piaciuto davvero un sacco. Tanto che per la prima volta da un sacco di tempo mi sono ritrovata lì a pensare cavolo che fortuna che son qui. E alla fine devo dire che la mia irriverenza è roba da poco, ma quando ce n'è un pò anche solo un pizzico, vuol dire che sto bene. Perché vuol dire che sto vivendo un sacco di cose. Ed effettivamente negli ultimi due mesi ho provato un sacco di cose, ho provato un po’ di tutto in realtà. Ansia, allegria, divertimento, paura, felicità, misiticismo, lutto, Amore. E visto che sono stufa di metterle nel mal di schiena quelle robe lì che sento alla fine finisco per metterle da un'altra parte. In un buon sushi ad esempio. Per cui buon sahimi. Buon nighiri a tutti.

O_NAMI.

A te che mi stavi seduto accanto su una pietra trasformata in panchina riscaldata da un sole che sapeva di brace. A quando sono caduta nel fiume e tu non riuscivi a smettere di ridere. Uguale a tuo padre, il suo stesso viso e gli stessi occhi.
Tua è la sua intelligenza e il cuore caldo è di tua madre. La mia seconda madre. A te che mi guardavi sorridendo mentre io piccina con gli occhi grandi e spersi cercavo una certezza tra i mirtilli.
A te. Che quando ho sentito più freddo mi hai offerto una cioccolata calda in mezzo alla notte di una Torino che ancora non mi apparteneva. E le ore sono volate via tra le parole di un Battiato che tu conoscevi a memoria e che da quella notte mi appartiene come l’odore del caffè la mattina.
A te che hai creduto in me quando io non ci credevo. Che mi hai vista forte quando io crollavo. Che mi hai fatto asaggiare il sapore quando tutto era amaro. Allo Strega e al croccante al cioccolato. Alla birra bianca e al lampone e alle notti in macchina ad ascoltare la musica. A tutta la magia che mi hai insegnato. Alla vita è una favola. Alle coincidenze non esistono. Ai pomeriggi accanto a te mentre suonavi il pianoforte. A una canzone mai composta. Ai passamontagna neri. Alla tua rabbia e alla mia. Alle delusioni su cui abbiamo imparato a ridere. A testa di dentifricio e al tuo stupore. Al teschio di onice in cucina e alle pinzette di Hello Kitty. Alle passeggiate in via Garibaldi. Al tuo credere in me in ogni sfumatura, sempre, in ogni decisione e in ogni respiro. Al poter dire per una volta nella vita senza di te io non ce l’avrei mai fatta. Al ti proteggerò dai turbamenti. Alla dedica perché sei un essere speciale. Alla telepatia. Al giorno in cui tu ti sei innamorato. E al giorno in cui mi sono innamorata anche io ma non di te. Al tuo volermi così bene da accettare il mio diventare grande e diversa da te. Al viaggio a Milano per una sola cena e al non sentirmi mai sola perché c’eri tu da vicino e da lontano. Ad ogni ricordo della mia vita in cui tu ci sei. A tutta la mia vita in cui tu ci sei. A tutte le vite in cui ci sei stato e ci sarai. A quando insieme all’amore ho creduto di aver perso anche l’amico più grande. Al cardamomo e al tandoori. Alla grande madre e a una lettera da consegnare in India. Alla casa dei tuoi, mia seconda casa. Alle playlist di Itunes. Alla Apple e alle tue preghiere. Al tuo sapere. E al mio cuore. Ai soldatini e a Star treck. Alle ore passate a parlare. Alle ore passate ad ascoltare. All’idroscalo. E al tuo vedermi sempre bella. Al tuo vedermi invincibile dietro il vento che voleva portarmi via. Al giorno in cui hai incontrato l’anima gemella. Alla tua malattia e al giorno in cui ho creduto di perderti per sempre. Al Theta e al tuo sorridere di me. Al giorno in cui ho iniziato a sentire la tua mancanza.. Al momento in cui ho capito che voler bene davvero non vuol dire possedere ma anche lasciare andare. Al giorno in cui ho capito che amare non è idealizzare. Al giorno in cui avevo bisogno di te ma non ho chiesto. Al giorno in cui ho pensato ti meritassi solo felicità e mi sono messa da parte. Al giorno in cui ho accettato di non farne parte. Alle manifestazioni. Ad oggi. Che ritrovo tutto questo. Ad oggi che mi hai di nuovo ripetuto che le palle che ci ho messo io in pochi ce le mettono e al sapere che puoi dirlo perché mi hai vista da vicino e a volte sono la prima a dimenticarmi da dove sono partita. A te che sei il 50% del mio cuore. Più di un fratello, più di un amico. Sei la famiglia che ho scelto. Grazie.
E guarirai da tutte le malattie. Perché sei un essere speciale.

Ho ritrovato il costume tra le pietre.

Quando dico che i cerchi si chiudono voglio dire che proprio tutti i cerchi si chiudono. Ma non i cerchi di tutti, i miei cerchi, quelli nuovi, quelli che ho creato io.

Oggi in cima ad un monte con davanti un fumante piatto di polenta si parlava della responsabilità dei ricordi. Io questa frase l’ho interpretata a modo mio. Ognuno è responsabile dei ricordi che lascia di se stesso, dei ricordi che conserva degli altri e dei ricordi che sceglie o meno di riesumare, dopo averli sepolti sotto una spessa coltre di esperienze, a volte vissute per crescere altre volte, semplicemente per dimenticare. Il problema è che se anche crediamo di aver dimenticato, non è così. Conserviamo tutto. A volte in una ruga, altre volte in uno sguardo, altre volte in una malattia, altre volte ancora in un gesto che può cambiare una vita intera. Noi siamo i nostri ricordi. I nostri ricordi sono ciò che siamo realmente nel presente e ciò che rendono il nostro futuro possibile. Per questo è importante essere responsabili nei confronti dei propri ricordi. Ho chiamato una parte della mia vita la ricerca delle tracce. Ho guardato fotografie, fatto domande, anche non gradite, ho letto tantissimo per risvegliare un vissuto perduto, ho visto le catene, ogni cerchio, ogni sfumatura, ogni colpo di luce, riflesso sulle curve di acciaio rovente. A volte mi auguro di averle spezzate, quelle catene, altre volte ne sono certa, altre volte mi lascio prendere dalla paura di non aver spezzato un bel niente. Sta di fatto che nell’ultimo periodo i miei cerchi si stanno chiudendo uno dopo l’altro. Siamo vicini alla libertà. Ne manca uno, Bussana, ed è arrivato il momento di recuperarlo se voglio ricominciare a volare alto. Fino in fondo responsabile dei miei ricordi. Li voglio proteggere tutti. Voglio proteggere gli occhi verdi che un giorno mi hanno mostrato quella magia, anche se oggi mi mancheranno più di ogni altra cosa.  Voglio proteggere me stessa, non trasformandomi in qualcosa di diverso da quello che sono. Voglio sentirmi di nuovo amata come mi sono sentita amata lì, camminando in mezzo alle pietre, tra un mercante di gioielli, una tenda indiana e uno zaino pieno di risposte.

Vorrei di nuovo la mia amica. Ma con lei la vita era troppo facile da capire.

Adesso me la devo cavare da sola.

E ora con un pizzico di meraviglia nelle mani.

Una finestra sulla fronte.

Un quaderno nella borsa.

Una musica nelle orecchie.

Una fotografia nel portafoglio.

Io parto.

Dov'è stanotte una parte di me.

Stanotte una parte di me è da un’altra parte. È ad un festival in un posto che non conosco in quel di Pinerolo dove in questo momento sono riunite una serie di persone che si sono appropriate di una parte del mio cuore in quel modo unico che per me vuol dire per sempre. Al di là del fatto che loro lo sappiano. Al di là del fatto che le nostre vite continuino o meno a correre su binari paralleli. Chi lo sa. Lì ci sono persone che ancora non conosco davvero e che ho tanta voglia di conoscere e che per qualche motivo strano non riesco a conoscere. Sarà perché una parte di me sa che nel momento in cui le conoscerò, qualcos’altro in me cambierà per sempre. Lì ci sono due persone che rapresentano per me così tanto che credo che nemmeno loro se ne rendano conto. Forse loro non sanno come vorrei essere lì con loro in questo momento. Per esserci nel momento dell’emozione forte. Per condividere quell’emozione così forte. Per ritrovare nel cielo la mia stella, che oggi ancora mi manca più che mai. Vi abbraccio entrambi. Vi stringo entrambi. Mi riapproprio della mia stella. Si è giunta l’ora di tornare a Bussana. 

Barbera del Tennessee.

Tra i vigneti delle langhe è un po’ come essere in Tennessee. Una macchina sull’autostrada, un’amica che lotta per tenere gli occhi aperti, un amico che è un vulcano, un Johnny Cash che va in giro e io che guardo fuori in attesa che la mia vita dia il giro. E c’è una luna a cui mancano solo i baffi da stregatto tanto è perfetta all’orizzonte alle 4 del mattino. E anche se i battiti nel torace non vogliono rallentare, ancora una volta mi ripeto che tutto serve. Serve anche la fatica, a volte, serve alzarsi con la paura e addormentarsi senza. Potevo fare meglio? Si, si può sempre fare meglio. Ma sul momento no. Sul momento ho fatto esattamente tutto quello che potevo fare. Quindi va bene così. Arrivo in cima ad una collina tra i vigneti. Da una botte di legno esce barbera a fiumi e una fila di piemontesi bruciati da non so quale sole del Tennessee si spingono per riempire il calice. Io il mio calice me lo volevo portare a casa ma è andato in frantumi nel parcheggio di uno chef express che si rifiuta di fare i panini in piena notte. Non importa. Sarà per il prossimo calice. Sarà per il prossimo panino. In cima a quella collina c’è un borgo in festa. C’è una sfilata con piccoli stambecchi che camminano storti sui tacchi troppo alti, ci sono dei film proiettati sulle pareti di un palazzo con davanti 4 sedie rigorosamente vuote, c’è un castello e un palco sotto il castello e tutta una storia di leggende tra band rivali in nome di un intramontabile rock’n roll che questa notte si contendono un eroico batterista. Ci sono io che nonostante sia salita sulla macchina in corsa non riesco ancora a sentirmi libera. Ci sono io che nonostante non riesca ancora a sentirmi libera mi sento fiera. È l’integrità che conta. Perché è sempre più facile prendersela con gli altri e scaricare sugli altri valigie di letame, è sempre più facile galleggiare in semplici questioni di potere, utilizzare la carta utile al momento giusto solo per difendere il proprio potere, piuttosto che rimanere integri. Vada come vada sono rimasta integra. Vada come vada sono rimasta lucida. E un po’ come gli stambecchi di 19 anni sulla passerella mi sembra che in questo momento tutti stiano camminando un po’ storti troppo impegnati nel diffondere pillole avariate di insicurezza a destra e a sinistra in testa ai malcapitati spettatori.  Forse è il barbera, forse è la stanchezza di un anno difficile, forse è solo perché non c’è nulla di più fragile e pericoloso del potere. Il potere lo puoi perdere in un solo istante, quello che hai dentro no. Quello non lo perderai mai.

I vigneti sembrano non finire mai, Johnny Cash non finirà mai, la luna perfetta è il migliro digestivo che sia mai stato inventato e io proteggo quello che ho dentro con tutta la forza che ho. Perché è l’unica cosa che non perderò mai.

Vale la pena farci un investimento.

Vale la pena investirci una vita.

 

 

La tribù dei piedi neri.

Si parlava ieri di uno strano fenomeno per cui anche camminando in un campo di polvere e terra sotto un inferno di luce e di caldo, o nel fango sotto il diluvio i miei piedi e le mie infradito rimangono sempre miracolosamente lindi e immacolati. Sarà il modo di camminare si diceva. Sarà perché tu non cammini per terra, tu cammini nell’aria. Mi hanno detto. Forse è vero, nonostante il mio sia un segno d’acqua, ho uno strano rapporto con l’aria. Tutto tende verso l’aria e non solo le blatte europee. Qualche giorno fa, presa da un’improvvisa sindrome da casalinga ( essere madre mi sta trasformando in signorina), sono uscita sul balcone per bagnare le piante. Quando dico le piante uno si immagina un trionfo di glicine, viole, ibiscus e non ti scordar di me, invece no, le mie piante sono (erano): un vaso di gerani ereditato dal precedente inquilino, un rosmarino morto ereditato dal precedente inquilino, una salvia morta ereditata dal precedente inquilino, una piantina di menta e una di basilico, gentile presente della mamma. Sono uscita sul mio balcone, ho sorriso al giorno che nasceva, ho abbassato lo sguardo e ho iniziato a borbottare come un burbero giardiniere vedendo la miseria di quelle povere piante. Poi ho pensato che l’unica cosa da fare fosse tentare disperatamente di salvare il basilico. Lo bagno ancora, deve rinascere, almeno lui ce la deve fare. Ho preso il vasetto con il basilico e mi sono affacciata su via Po per far scorrere l’acqua nella grondaia. Io non so come sia potuto accadere, il perché ho smesso di chiedermelo da un sacco di tempo, fatto sta che il vasetto mi è inaspettatamente scivolato dalle mani. E con le stesso senso di impotenza di quando avevo ricevuto la simpatica visita dello scarafone sono rimasta pietrificata a guardare il mio basilico spiccare il volo, mentre il vasetto si staccava dalla terra e le foglioline si agitavano nel vuoto in preda ad un precoce attacco di sintesi clorofilliana. Solo quando ho sentito un rumore sordo e minaccioso provenire dal basso sono riuscita a riemergere dalla mia immobilità e come una ladra, ho strisciato per rientrare in casa e nascondermi dietro le persiane. Mi sono seduta sul divano e ho atteso. Nessuna ambulanza, niente urla, silenzio. Codarda, ho tergiversato per ritardare la mia uscita, temendo di trovarmi un carabiniere fuori dal portone pronto ad arrestarmi o a farmi domande per risalire all’inquilina del quarto piano o di imbattermi in una signorina svenuta in una passata di sangue e basilico fresco. Invece quando sono uscita, occhiali scuri e foulard in testa, (non è vero ma mi sono immaginata così in quel momento) tutto era tranquillo. Il solito ubriacone che si siede accanto al bancomat della Unicredit per fare leva sul senso di colpa di chi entra a ritirare soldi. Il solito signore che costruisce le marionette che stava iniziando ad allestire il suo banchetto. Il solito tabacchinaro siculo che puliva per terra pronto a vigilare sulla mia bicicletta perché lui sa bene che per rubare le biciclette basta un attimo. Scomparsi. La mia piantina e il suo vaso si sono volatilizzati in quel vuoto surreale che circonda casa mia. Ho provato ad indagare con malcelato disinteresse ma nessuno mi ha saputo dire nulla. Ora ho circondato la superstite piantina di menta con il filo spinato per salvarla a tutti i costi, da me stessa e dalla Nini, dal momento che ho scoperto che i gatti se solo ne assaggiano una foglia sono capaci di distruggere una casa intera pur di averne ancora (dei veri tossici sti gatti). E ho scoperto anche un’altra cosa, a mia insaputa i miei genitori, ai tempi, hanno pensato fosse cosa buona e giusta farmi l’assicurazione per la casa. E allora mi dico: forse il legame tra la mia tendenza a lanciare oggetti/esseri viventi/vegetali dal balcone e il fatto che ho i piedi sempre puliti dipende davvero dall’aria, quella di cui in questo momento ha palesemente, drammaticamente bisogno la mia povera testolina.

 

 

 

Chi ha dimenticato la porta aperta?

Si dice che tutti almeno una volta nella vita formulino consapevolmente o meno il pensiero di voler uccidere i propri genitori. Io consapevolmente non l’ho mai pensato. Inconsapevolmente vai a sapere. È un po’ come chiedersi perché alla fine uno vada a ritrovarsi sempre nello stesso tipo di situazioni. Una volta ho mollato tutto e sono andata a vivere per un anno in Spagna per uscire dalle mie situazioni. Ricordo il momento in cui, dopo i primi mesi di adrenalina, mi sono dovuta dolorosamente rendere conto che tutto ciò che non mi piaceva della mia vita si stava miracolosamente ricreando. Ma com’è possibile? Credevo che mollare tutto e tutti bastasse per cambiare le cose. E invece guarda, il copione sembra lo stesso di prima. Solo gli attori sono cambiati. Tutti gli attori tranne il protagonista. Eppure per cambiare le cose mi dovevo rendere conto che ero stata davvero io a crearle. Non era colpa dei genitori, non era colpa di amicizie sbagliate o di una città che credevo di non amare. Era colpa mia. O per lo meno, in quel momento, nuda come un verme  con la pelle d’oca davanti allo specchio perfetto delle esperienze, ho capito che cosa stavo facendo e cosa non volevo più fare. È in quel momento che ho trovato il modo per cambiare le cose. Semplicemente perché sono riuscita a vederle per quello che erano. Dura, è stata dura. Per cambiare le cose ho dovuto anche ritrovarmi in mezzo ad una tempesta, di notte, in cima ad un monte su un’isola delle Canarie, in bilico sull’orlo di un precipizio circondata da piantagioni di banane, alla guida di una vecchia Mercedes col sedile bloccato troppo indietro per me, imprestata da un baffuto pappone canario. Se ripenso a quel momento è come se fossi ancora lì, con il vuoto sotto, tra il cielo e il buio con una lacrima di paura lungo le guance. Non so come, ma sono comunque riuscita a mantenere il sangue freddo (l’ho perso di più per lo scarrafone) e sono riuscita a fare marcia indietro. Ero salva, ero viva eppure mi sono sentita terribilmente sola perché nessuno in quel momento era abbastanza lucido per capire cosa fosse successo, cosa avessi rischiato. In quel momento ho accettato per la prima volta quella solitudine con la consapevolezza che qualcosa, qualcuno, mi aveva salvato perché avevo ancora un sacco di cose da fare. In quel momento ho capito che c’è un solo modo per cambiare il proprio destino: spezzare le catene. Si, perché se non spezzi le catene tutto si ripropone, in eterno, generazione dopo generazione, malattia dopo malattia, ossessione dopo ossessione. Ma basta spezzare un solo anello e tutto cambia e cambierà per sempre, per te e per chi verrà dopo di te. Non è stata la Mercedes a farmi spezzare la mia catena, è stato tutto quello che è venuto prima: una difficile fuga dalla mia trappola e da quella delle mie generazioni. E non sempre c’è bisogno di un martire per capire. Il male, a volte è sottile, scorre sotto i tappeti, dietro le tende, ci circonda e fa talmente parte della nostra esistenza, che non riusciamo nemmeno a distinguerlo dal resto, perché non vediamo nient’altro che quello e non conosciamo nient’altro che quello. E per vederci meglio, a volte basta un flebile spiraglio di luce, attraverso una porta, per sbaglio dimenticata aperta. Qualcuno nella mia vita ha lasciato per sbaglio una porta aperta. Non so chi sia stato, magari l’ho dimenticata io stordita come sono. Ma so che lo ringrazierò per sempre. Perché mi è bastato un solo sguardo e tutto è cambiato e continua a cambiare. E riguardo al fatto che si dice che tutti prima o poi nella vita formulino almeno una volta il pensiero di uccidere i propri genitori, beh se non è capitato a me alla Nini sicuramente è successo l’altra notte. Credo fermamente nel fatto che abbia pensato di uccidermi. L’ho dovuta chiudere nel bagno. Il veterinario dice che forse dovrà andare da uno psicologo. Anche la Nini dovrà spezzare le sue catene. E magari anche lei lo capirà in una notte di tempesta in bilico sulla grondaia tra il cielo di Torino e via Po.

Quetzacoatl è telepatico.

LUNEDÌ 11 MAGGIO 2009

Pensavo…tanto per cambiare (tra l’altro i pensieri più strani li formulo mentre sto facendo qualcosa. Tipo mentre sto pedalando o mentre vado in bagno a fare la pipì). Pensavo…pare normale? A volte mi ritrovo in certe situazioni. Anzi molto spesso mi ritrovo in certe situazioni, che paragonate al resto del mondo che mi circonda, forse, proprio normali non sembrano. In quei momenti tragi-comici, quando per un attimo vedo la mia situazione dal di fuori, mi viene da ridere. Grasse risate. Con tanto di goccioline a spruzzi e trucco che cola dagli angoli degli occhi. Non so se sia una risata sana, magari è solo il sintomo di un allegro esaurimento, magari è una di quelle risate che potrebbero benissimo trasformarsi in un pianto a dirotto. Sono scelte, come dico sempre io. Ad ogni modo, che sia nel mentre o subito dopo, rido fortissimo. Quello che mi sorprende è la rapidità con cui ultimamente riesco a ribaltare la mia situazione emotiva. Si chiama cinismo? Non lo so. Si chiama lucidità unita ad una sensibilità ingestibile? Può darsi. Ieri ho passato una giornata che vista dal di fuori io ho interpretato con un film di Almodovar e la mia Alter Ego come “Donne sull’orlo di una crisi di nervi”. Fatto sta che mi sveglio. Striscio sul divano. Ricevo una telefonata “Sto andando da Ciccio”. Metto giu. Non riesco nemmeno ad alzarmi dal divano, perché c’è la luna piena (è l’una, cosa c’entra la luna piena? c’entra c’entra..) e non solo, diciamo che il venerdì sera che dovevo passare a casa tranquilla si è trasformato in una crisi di iperattività con pedalata alle tre del mattino che ha lasciato segni assurdi ed evidenti un po’ dappertutto. Poi ricevo un messaggio “ti dico solo che Ciccio è Buddista”. Quel  messaggio mi ha fatto alzare dal divano. Non per il richiamo del Nirvana, ma perché mi ha fatto ridere. Era il principio di una situazione. E io lo so che quando mi sveglio così e c’è la luna piena e mi chiama quell’Alter Ego lì va a finire malissimo. Pulisco la strisciatina di pipì della Nini (nonostante le abbia chiesto parlandole per un’ora di trovare un modo più dignitoso di attirare la mia attenzione al posto di pisciare e cagare ovunque non abbiamo ancora risolto i nostri problemi), mi infilo una gonna, le scarpe, una maglietta ed esco. Arrivo nella solita via. Dove c’è un kebabbaro. Dove ci sono delle panchine. E dove c’è un tatuatore che oggi chiamiamo Ciccio che tarda ad arrivare. La mia Alter Ego è seduta sulla panchina e parla al telefono. Io finisco la siga camminando avanti e indietro come un gambero. Lo so che è uno di quei giorni in cui non riesco a pensare alle cose concrete e il mio sguardo è una via di mezzo tra stagno e spilli. Faccio il gambero e non me ne rendo nemmeno conto. I piedi fanno tutto da soli io sono da un’altra parte. Metto a nanna il gambero, perché in questi giorni non lo sopporto e mi siedo sulla panchina. L’A.E mangia un kebab io mi bevo una cocacola (il kebab l’ho già mangiato alle tre di notte, l’odore di cipolla ora proprio non lo posso tollerare). Siamo sedute lì e attendiamo l’arrivo di Ciccio mentre un’intera Torino ci passeggia davanti e sono così tante le cose successe nelle ultime 24 ore ad entrambe che un discorso tira l’altro. Tira l’altro nel senso che ne incominciamo un sacco senza concluderne nessuno perché di base non esiste ancora nessuna conclusione. Ciccio arriva ad interrompere discorsi inconcludenti eppure dai contenuti di rara saggezza. Ciccio è cresciuto dall’ultima volta. Si perché in realtà questa storia è iniziata nel 2004  a Barcellona quando mi sono svegliata una mattina col desiderio di suggellare l’epocale cambiamento con un tatuaggio e questo pensiero durato una frazione di secondo si è trasformato due ore dopo, accompagnata dalla mia A.E, in un enorme tatuatore di nome John con la barba lunga fino alle ginocchia. Poi mi ritrovo un pomeriggio a Torino con l’A.E alla ricerca frenetica di un tatuatore. Si perché normalmente un tatuaggio bisogna prenotarlo con mesi di anticipo. Ed è così che incontriamo Ciccio. Perché Ciccio, alla fine è sempre disponibile. E Ciccio e l’A.E diventano un sacco amici. E oggi Ciccio e l’A.E si ritrovano. E mi ci ritrovo pure io. E di mezzo c’è un po’ di tutto, c’è un cambiamento, c’è un danno ad una macchina di 3000 euri, c’è un kebab non digerito, c’è una sorta di felicità abbinata ad un'impalpabile sensazione di spavento, c’è un amico per cui mi sto preoccupando più che per me stessa, c’è il filo di un discorso da concludere, c’è una divinità Atzeca con la testa di serpente e il corpo d’uccello, c’è la luna piena e tante cose. Tante Cose. Ciccio un appuntamento ce l’ha quindi dopo esserci appropriate dello studio nemmeno fossimo a casa del nostro migliore amico, andiamo all’internet point per cercare i disegni di quel potentissimo Re che è Quetzacoatl perché la mia A.E è una Regina e giustamente pretende da Ciccio un Re.  E mentre lei cerca il Re, dopo aver riesumato due tessere dell’internet point con codice disperso, io mi dilungo in una telefonata per un amico, che sa di vita all’ennesima potenza e che mi fa capire quanto tempo, cuore e paranoie ultimamente io abbia perso in emerite cazzate. Sono emerite cazzate le mie. Le sue no. E lui sta in piedi molto meglio di me io invece vado a sbattere dappertutto. Torniamo da Ciccio. Saltelliamo avanti e indietro nel suo studio e rispondiamo al citofono accogliendo improbabili personaggi. E poi è iniziato tutto un discorso di inequivocabile umidità mentre io stringevo i denti per non sviare il discorso, continuando a ripetermi “oh madre” e sono uscita dallo studio di Ciccio con lo sguardo ancora più stagno e spilli di prima ma contenta e felice con un bel cambiamento, un’amica, un amico, nel cuore e sulla pelle, e con la Netta percezione, che questo periodo, ora è certo, non me lo dimenticherò mai. E grazie ad una giornata all’insegna dell’improvvisazione ora la Regina ha il suo Re. Io, ho concluso (forse) un discorso. Quetzacoatl è telepatico, skype non funziona e la Nini oggi si è pure vinta una seduta di Reiki gratuita.  E rivedendo quello che doveva essere un normale sabato pomeriggio pensavo…pare normale?

L’iniziazione.

L’iniziazione è quando superi una prova grande. Grande per le tue gambe. I tuoi piedi. Le tue mani, strette, affusolate, eppure con la pelle dura. L’iniziazione è quando ti guardi allo specchio e ti rendi conto di avercela fatta. Nonostante tutto. Di aver guardato con onestà dentro te stesso. Quando l’acqua si calma. I cerchi perdono la loro spinta e oltre la trasparenza riesci a vedere tutto quello che rimane sul fondo. Sul fondo. Per sempre.L'iniziazione è quando ti rendi conto che ognuno interpreta le cose a modo suo e che l’unica certezza è il proprio modo di vedere le cose. Quando rimane saldo, dentro di te, come quei resti sul fondo che riesci a vedere nitidi come fossero in superficie, il rispetto verso te stesso. Quando resisti senza perderti, quando provi emozioni, quando sai di aver fatto tutto, detto tutto e sentito tutto quello che potevi sentire. L’iniziazione è quando tutto torna. I tuoi contorni diventano ancora più definiti e la tua capacità di amare più profonda. L’iniziazione è quando ammetti a te stesso di avercela fatta perché qualcuno, con più esperienza di te ti ha aiutato a capire perché tu, hai cercato aiuto. E quando comunque ti rendi conto che nonostante l’aiuto, dipende da te quel tesoro che rimane sul fondo. Un tesoro che hai raggiunto e che non potrai mai più perdere. Quando guardandoti indietro sorridi, e forse piangi un po’. Perché tutto ciò che è vita è umido. L’iniziazione è qui. Quando per un attimo la corrente dei pensieri, del sangue, dell’aria si ferma e in te trovi la risposta, quella giusta, che ad ogni cosa che accade restituisce un senso. L’iniziazione è avvenuta. Superata. Ora, siamo pronti per la discesa. Accendiamo una di quelle candele che vengono da un monte della Grecia. Quelle dei momenti speciali. Quelle che qualcuno già conosce. Da dieci anni le porto con me. Probabilmente l’ultima che accenderò rappresenterà la lezione più grande.

Lasciamo libere le persone. Lasciamoci liberi. Perché tanto tutto, ma proprio tutto, torna. 

Cercasi Farfalla San Bernarda.

C’è poco da fare. Le farfalle mi si stanno riproponendo come la peperonata. Nel senso che ci provo a lasciarmele alle spalle. Voglio dire è un po’ come la febbre suina. Ci provi a nascondere che sei un porco ma tanto prima o poi viene fuori la tua vera natura. E più la reprimi più viene fuori sotto forma di virus. Sotto forma di anomalia. Non che io sia una farfalla. Però a volte faccio come loro. Quindi forse sono una farfalla. Spicco il volo, me la giro di qua e di là per 24 ore e poi uno scarrafone caduto dal cielo non so bene come mi piomba sulle ali, si aggrappa e ovviamente grande e grosso com’è me le spezza e mi schianto volteggiando, e nemmeno con grazia, a terra  facendogli pure da tappetino antiscivolo. Ma dico io non potrebbe esistere per le farfalle una di quelle boracce come quelle che c’hanno i cani grossi, quelli che salvano la gente in montagna, quelli che sembrano bravi e buoni ma che se li fai incazzare ti sbranano…i San Bernardi ecco. Si, dicevo, non potrebbe esistere anche per le esili farfalle una borraccia piena, non di rum ma di insetticida stendi scarrafoni per farli fuori non appena si avvicinano invece di stare lì ad esitare sul da farsi? Una farfalla San Bernarda non esiste? Lo schianto questa volta è stato anche abbastanza epico. Annaffiato da una pioggia di vodka lemon e da un tabaccaio che vedendo la mia faccia sconvolta mi ha pure regalato un accendino. Mi ha regalato un accendino non so se tutti si rendono conto di cosa voglia dire regalare un accendino in tempi di Ccrisi. Che pure l’estetista che mi fa la ceretta parlandomi della crisi mentre mi strappava anche le cellule cerebrali oltre a quelle cutanee alla fine ha gentilmente evitato di farmi il solito sconto. Perché c’è la Ccrisi. “Tieni..” mi ha detto il tabacchinaro. E in quel tieni c’erano un sacco di parole. “Tieni e non piangere bel muso che vedere una ragazza come te piangere mi spezza il cuore” (l’alternativa è “Tieni bella fica non ti preoccupare che te la faccio passare io la tristezza. Minchia). Grazie. Grazie tabacchinaro che almeno tu hai capito. Anche se probabilmente non tornerò mai più da lui io non dimenticherò quell’amabile gesto di solidale pietà nei confronti di una farfalla alla quale uno scarrafone aveva appena spezzato le ali. Tra l’altro quella mattina, quella in cui il volo della farfalla si è tristemente interrotto, la prima cosa che ho fatto quando mi sono svegliata in un lago di lacrime è stato stirare. Il problema è che essendo ancora leggermente sotto i fumi del vodka lemon per capire se il ferro era pronto ci ho messo la mano sopra. E dopo aver dolorosamente stirato ho preso il tram chiedendomi dove diavolo stessi andando. E una volta arrivata vicina al mio ufficio invece di andare in ufficio sono andata a fare la spesa e poi sono entrata dal tabaccaio. Ad ogni modo. C’è poco da fare. I voli che riesco a farmi io non se li fanno in molti. Sono belli eh…vedo un sacco di cose, divento più bella, posso dormire tre ore a notte e non me ne accorgo nemmeno. Belli si. Belli. Peccato che la vita di una farfalla duri solo 24 ore. Sarà per quello che mia sorella a Natale mi ha regalato dei favolosi stickers a forma di farfalle rosse da attaccare al muro? Come per dirmi “Uè, farfallina, rimani un po’ attaccata alla terra!”. Va bene. Ci proverò visto che ultimamente sto provando a fare un sacco di cose. Ma non rinuncio al sogno di vedere prima o poi una farfalla San Bernarda. E poi ora c’è la Nini. La Nini ora è piccola piccola ma un giorno crescerà e se li mangerà tutti gli scarrafoni. Nel frattempo metto un attimo il cuore in pensione aspettando che mi passi la gastrite e l’ossessione degli scarrafoni e nuoto in un brodo di giuggiole quando torno a casa e questo piccolo dono del cielo mi corre incontro urlando “Miu Miu”. Voglio dire, in certi casi “Miu Miu” è una dichiarazione d’amore molto più profonda di tante parole.

 

 

 

Uno scarrafone merita di morire?

L’altra mattina ce l’ho fatta. Appena mi sono alzata sono riuscita a fare quella cosa difficilissima del cambiare la mia prassi mattiniera per imparare ad essere più flessibile. Allora appena la sveglia ha suonato (io ero già sveglia da venti minuti) mi sono alzata e con passo da guerriero armato di tutto punto  contro acerrime abitudini mi sono avviata in bagno per fare la doccia prima di fare colazione. Ma è cosa nota come in ogni guerra degna di memoria  i nemici siano tanti, si nascondano ovunque e si possano palesare in qualsiasi momento. Nel mio caso nel momento in cui ho aperto la porta del bagno.  Perché quando ho aperto la porta del bagno ho sentito per la prima volta una vera nostalgia di quella impavida e  onesta donna che è mia madre. Perché per terra, ribaltato sulla propria sudicia corazza ma pronto a riscattarsi con una corsa da maratoneta mi attendeva un famigerato, lurido, infimo scarrafone. Non ho mai avuto particolari problemi con gli esseri viventi di qualunque genere poiché cresciuta in mezzo alla natura nonché probabilmente concepita vicino alla giungla in sudamerica, abituata da subito a giocare con i vermi della pioggia (quelli che sui prati lasciano quei cumuli di fango raggrumato a palline che non ho mai ben capito se sia la loro cacca oppure no magari dopo su wikipedia controllo) a prendere rospi in mano che mi sputavano l’acqua addosso (non il veleno per fortuna siamo in piemonte non in Nicaragua) e allevato vipere finite in casa per sbaglio. Ma gli scarrafoni, o meglio, blatte europee (bisogna conoscere bene il proprio nemico per poterlo annientare) proprio non li tollero. O meglio proprio mi terrorizzano. È in quei momenti che vivere da sola non mi piace. Solo in quei momenti. Perché in quel momento mia madre avrebbe sicuramente impugnato la pantofola e giustiziato la blatta senza pietà e senza la minima esitazione. Io invece no. Magari questo terrore degli scarrafoni è una semplice metafora dello stesso motivo per cui al mattino il mio essere abitudinaria rasenta la psicosi e che non ho ancora ben capito quale sia. Ad ogni modo sono rimasta almeno per 30 secondi pietrificata difronte all’imprevisto intruso senza riuscire forse nemmeno a respirare. E in 30 secondi uno scarrafone è capace di percorrere almeno un isolato di via Po e soprattutto di scomparire dalla nostra vista e nascondersi non so dove per iniziare a prolificare senza il minimo pudore. . E in quel mezzo minuto l’unica cosa che ho capito è che mi faceva troppo schifo e che era troppo vivo per riuscire ad ammazzarlo. Povera, debole creatura sono io sottomessa a tal punto ad uno scarrafone da non ritenerlo meritevole di morire (e questa potrebbe essere un'altra metafora ma di tutta un'altra storia, quella di ieri sera). L’unica cosa che mi è venuta in mente è stata di correre in cucina, prendere la paletta con la spazzola, verde a forma di foglia con le coccinelle (giusto per rimanere in natura) correre di nuovo in bagno trovando miracolosamente (a volte il fato ci è amico) la blatta ancora lì immobilizzarla con la spazzola trascinarla sulla paletta avere voglia di vomitare vedendolo correre come un pazzo sulle pareti della paletta per fortuna lisce correre fuori e con tutta la forza che può avere un’esile fanciulla come me lanciarlo dal terrazzo. Giu. Verso il cielo. Nel vuoto. Su via Po. Io spero e mi auguro e nel caso chiedo umilmente perdono, che il mio nemico non sia finito in testa ad un malcapitato alla fermata del tram. Se capitasse a me rimarrei traumatizzata per sempre e inizierei a girare con l’ombrello aperto anche con il sole e non credo che avrei gli stessi apprezzamenti che riceveva Rossella O’hara. Ho poi chiuso il lavandino con il tappo, abbassato l’asse del cesso e tappato il bidè e invece di fare la doccia sono andata a fare colazione. Ho pensato che come variante una blatta nel cesso fosse più che sufficiente per dissacrare il mio sacro momento del risveglio.

E ora speriamo solo che i cugini di scarrafone non scoprano dove abito perché dopo un lancio dal quarto piano ho paura che la vendetta possa essere definitiva.

Stasera arriva una sorpresa. Fra mezzora. Che mi cambierà la vita.

Maledetti rituali.

Accendo la tele e sento: “Il consumatore sta diventando sempre più professionista…si fa più colazione in casa che al bar….la gente inizia a farsi il pane in casa, per risparmiare…”.

Per quanto riguarda la colazione non ci sono dubbi. Io la colazione la faccio in casa. Non solo la faccio in casa, la colazione rappresenta per me l’apice di ritualità della mia esistenza quotidiana. Non so se si tratti di una sorta di tranquillante, un’oasi di sicurezza, per iniziare con i piedi di velluto la mia giornata o se invece sia una semplice manifestazione del fatto che credo profondamente nel potere dei rituali. So che un caro amico, poco tempo fa mi ha detto di provare ad essere più flessibile. Avrei potuto reagire male e offendermi  “flessibile? Ma come? Io sono già flessibile!”. Lui, senza minimamente scomporsi mi avrebbe risposto “ volevo dire…ad esempio, quando ti svegli cosa fai?”. Ora come ora non ricordo se me l’abbia chiesto davvero o se me lo sia chiesta da sola. So con certezza di non aver reagito male perché subito la mia mente pensando al momento della mia colazione si è resa conto della totale mancanza di flessibilità che caratterizza certi aspetti della mia vita. Questa è l’amicizia. Quando non sai nemmeno ricordare se la domanda te la sei posta da solo oppure no. Fatto sta che il compito della settimana era quello di cambiare anche di poco le mie abitudini mattiniere. Forse per molti sembrerà strano ma non ci sono ancora riuscita. Ci penso ogni giorno la sera prima di andare a dormire. Penso: domani, mi alzo e cambio abitudini. Le mie abitudini al mattino sono queste: dieci minuti prima che suoni la sveglia, io mi sveglio. Mi piace interpretarla come una gran voglia di vivere, vediamola così. Prendo il telefono in mano e controllo l’ora, per capire se sia meglio tentare di riaddormentarmi o se al contrario sia il momento giusto per iniziare ad alzarmi. Normalmente se mancano soli 5 minuti al suono della sveglia decido di alzarmi (in caso contrario vuol dire che mi sono svegliata alle 4 di notte e che la mia notte si trasformerà in un inferno per cercare di riaddormentarmi). Una volta che mi sono alzata per una frazione di secondo mi crogiolo nell’indecisione tra l’andare a fare la pipì oppure per prima cosa mettere su l’acqua per il Nescafè. Quasi sempre il piatto della bilancia pesa di più sull’andare a mettere su l’acqua per il Nescafè. Sempre con il pensiero, però, di ottimizzare i tempi e approfittare dei minuti necessari perché l’acqua cominci a bollire per andare a fare la pipì.  Allora entro in salotto, accendo la luce, accendo la musica, entro in cucina. Ma quando metto su l’acqua mi viene voglia di prepararmi la spremuta, allora inizio a tirare fuori la tazza per il Nescafè, il bicchiere per la spremuta e la ciotola per lo yogurti con i cereali. Poi taglio le arance, spremo le arance, verso la spremuta nel bicchiere, verso tre cucchiaini di Nescafè nella tazza, apro il frigo, scelgo lo yogurt, lo verso nella ciotola, ci ficco dentro i cereali, inizio a portare lo yogurt con i cereali e la spremuta sul tavolo in salotto, torno in cucina, la pipì mi scappa sempre di più, controllo l’acqua, vedo che l’acqua sta bollendo, la pipì ormai mi scappa troppo per cui faccio tutto di corsa, verso l’acqua nella tazza, per la fretta mi brucio un po’ ma non sento nulla penso solo alla mia pipì, tiro fuori le fette biscottate e la marmellata dal frigo, porto tutto correndo in salotto, la vescica sta esplodendo, correndo rischio di rovesciare il Nescafè, mi precipito in bagno e, ah, finalmente, faccio la pipì.

Maledetti rituali. Che oggi mi sono ritrovata con la bici in piazza San Carlo e per poco non mi schiantavo contro un pedone quando mi sono resa conto di essere uscita senza anello magico, senza orecchini e senza collana Afgana. Maledetti i rituali e benedetto il mio amico e la sua richiesta di essere più flessibile. Domani mattina, lo giuro sulla tazza di Nescafè, per prima cosa vado a fare la pipì e magari mi lavo pure la faccia con l’acqua fredda. Forse è per questo che adoro viaggiare. Perché quando viaggio, mi libero dei miei rituali. E lo prometto, agli amici soprattutto, cercherò di essere più flessibile.

Ok. Non le dico più certe cose.

Io sono al quarto piano. 

 “Una scossa! Eccola! L’ho sentita era una scossssa!”.

Non ho alzato il culo dal divano.
Ho chiamato la mia mamma.
La mamma non aveva sentito nulla.
Ho pensato...sarà stato il tram.
Vado in terrazzo.
Il tram non c'è.
Torno sul divano.
Chissà la nobil donna piemontese....

A Better place to Hide.

Cavolo. Stasera mi sono ritrovata a cena con una ragazza. C’erano anche un sacco di altre persone ma io ho cenato con una ragazza. Nel senso che c’era lei, e che è lei (per quella solita storia là che sono strana…) che ha dato un senso alla mia serata. Si perché c’è poco da fare, arrivati ad un certo punto persino i murazzi diventano banali. Per carità, ci fossero ancora certe persone non lo sarebbero banali. Perché c’erano una volta “persone” che riuscivano a rendere straordinario qualsiasi posto. E soprattutto qualsiasi persona. Cavolo. Dovrei dirlo  prima o poi ai Perturbazione. Si perché questa sera quando pensavo al senso della mia serata mi è arrivato un messaggio che mi parlava dei Perturbazione. E ripensando ai Perturbazione penso a quella serata in macchina mentre lei mi cantava i Perturbazione e penso come da quel giorno i Perturbazione siano diventati una costante speciale della mia vita. E penso che prima o poi lo racconterò, dei Perturbazione e di quella serata. Sarà per questo che oggi faccio fatica ad ascoltarli i Perturbazione. Li ascolto Pianissimo fortissimo, perché la vita a volte va fortissimo e ora sta andando troppo forte e appena rallenta un attimo mi sento svenire per lo scompenso. E stasera una ragazza ha dato un senso alla mia serata e a tante altre cose. I need. I need a better place to hide. Credo di averla ascoltata 400 volte in un solo giorno questa frase di quella canzone là. Tanto che ad un certo punto le mie colleghe credevano di avermi persa. Si perché dal di fuori anche io avrei pensato lo stesso. Da dietro, con i capelli lunghi lunghi non più ricci perché il lavoro me li ha stirati, con le cuffie che nessuno vedeva, mentre ascoltavo con un volume esagerato “i need. I need a better place to hide. I need to know. I need to know tonight” e nel frattempo mi massaggiavo le mani per cercare di fare assorbire la crema che tutti i giorni appena arrivata in ufficio mi metto sulle  mani perchè sono distrutte per colpa dei detersivi, si perché non uso i guanti a casa quando lavo i piatti, perché i guanti non riesco a capire perchè si riempiono d’acqua sul fondo delle dita e quando li infilo oltre ad una spiacevole sensazione umidiccia mi lasciano addosso un’orribile puzza di marcio che per toglierla mi devo rilavare le mani con il sapone per i piatti. Ad ogni modo io avevo la musica altissima nascosta dai capelli lunghissimi e mi massaggiavo fortissimo la crema sulle mani  cercando un posto migliore dove nascondermi e non rispondendo ad una mia collega che mi stava parlando da due minuti hanno creduto di avermi persa. E con quell’avermi persa intendevano probabilmente è andata. Caput. Si è cimita. Un po’ come una novantenne. Ed è il semplice fatto che l’abbiano pensato anche solo per un secondo che credo dovrebbe preoccuparmi. Ma ora preferisco non chiederemelo e ritorno alla ragazza con cui ho cenato questa sera. E ai Perturbazione. E al fatto che “i need. I need to know tonight” quello che devo fare per arrivare dove voglio arrivare. E se c’è qualcuno, da qualche parte che in questo momento mi sta pensando e che sta pensando alle stesse cose che penso io, allora qualcun altro, oltre alla ragazza con cui ho cenato questa sera e ai Perturbazione e alla mia ossessione sul trovare “a better place to Hide”, sta dando un senso a questa mia serata e a tutto questo: al fatto che ci credo, che tutti i sogni per cui sto lottando, che ogni sentimento su cui mi sto impuntando, siano possibili da realizzare. Basta crederci e stasera ci credo. E mi nascondo un attimo qui, finché non trovo un posto migliore, quello di quelle due braccia là, che sognerò stanotte, che mi stringono e mi tengono al riparo per un attimo dal resto del mondo.

Pasquetta o non pasquetta, la questione dei rimpianti.

Parti o non parti parti o non parti. Parti. Ma quante sono le volte che una decisione costa una rinuncia? Quasi sempre. Tranne che per quegli strani astrologici momenti in cui tutto sembra cadere dal cielo senza che tu abbia fatto nulla per ottenerlo. Tutto sembra cadere dal cielo a meno che tu sia uno di quegli strani esseri umani che dietro ogni cosa che accade legge uno strano, preciso, matematico disegno per cui ogni azione che hai compiuto ha contribuito a farti piovere dal cielo quella roba lì. Bene. Io sono uno di quegli esseri umani (O alieni o fate. Non lo penso io lo pensa qualcuno. Io penso solo di essere un po’ strana). Ogni cosa che mi accade viene dal mio cervello rapidamente rielaborata e tutto trova un senso, una spiegazione, una logica, tutto pare incredibilmente perfetto se non per un motivo: quasi mai, alla fine accade quello che speravo che accadesse. E nell’ultimo periodo mi è caduto dal cielo tutto quanto. Bene. Detto questo. Sicuramente anche io rientro negli stereotipi. Si perché dal di fuori, potenzialmente oguno di noi rappresenta uno stereotipo. Io sono lo stereotipo Amélie, fricchettona fighetta, ribelle per dimostrare qualcosa a qualcuno, romantica stile Beverly Hills 90210, Pollianna. Bene. Non riesco ad uscire dagli stereotipi a meno che io pensi che lo stereotipo sia un’etichetta che qualcuno ti appiccica addosso e che la percezione di chi sei dipenda soltanto da te stesso. Bene. Rimane il fatto che io sono io, che quello che ho vissuto lo conosco soltanto io, che la mia storia non è uguale a quella di nessun altro, che questo, credo, spero, faccia di me un individuo. Bene. A questo punto. Ritorno al punto non punto. Parto o non parto. Parto. E dentro questo parto, oltre ad un potenziale cesareo ci sta tutto quanto. Ci sta la mia primordiale contraddizione personale: istinto e razionalità allo stato purissimo. Parto perché mai nella vita mi sono tirata indietro difronte all’ignoto, ma parto con un salvagente, una pinna (non due perché una la dimentico a casa) un tom tom che non riesco a capire  e una bussola che non so leggere. Quindi mi ritrovo di nuovo qui. Son partita, partita in quinta, ho camminato un po’ sulla luna, mi sono sentita dire per l’ennesima volta “sei un essere speciale”, mi sono sentita lusingata dal fatto di sentirmelo dire, il cuore non ha fatto una piega si è solo pompato un po’ e la persona per cui il mio cuore non solo ha fatto una piega ma ha fatto un volo pindarico, emozionale, distruttivo, eccessivo, stravolto….non risponde. Ad un semplice messaggio non risponde. E secondo voi perché non risponde? Perché dietro quel semplice messaggio ci stavano dietro tutte queste cervellotiche rielaborazioni da Amélie, fricchettona fighetta, ribelle per dimostrare qualcosa a qualcuno, romantica stile Berverly Hills 90210, Pollianna. E quindi dico. Parto. Poi non arrivo da nessuna parte. Ma va bene così. Perché in quella piccola, minuscola frazione di secondo, durata più di una settimana io mi sono sentita la persona più felice del mondo o se non felice mi sono comunque affacciata al balcone del terrazzo magico della mia casa magica e ho pensato cose che mai avevo pensato prima e ho creduto di poter volare e se non fosse arrivata la mia più cara amica che per caso ha trovato casa al secondo piano del mio palazzo forse mi sarei buttata giù pensando di poter volare davvero tanto ero felice e ora….e ora ho i piedi per terra. Lo stomaco sottosopra e continuo a credere fin o in fondo nell’amore che sento e nel fatto che non riesco a leggere le bussole. Bene. Parto.Ora parto di là. Vado a fare il bucato perché domani non avrò tempo e penso: Bene. Ho fatto un altro volo ora ricominciamo a camminare dove capita, cercando di evitare le merde gialle di cani che a veder il colore della loro merda mi viene da pensare che c'è chi sta peggio di me.

Il bancomat nuovo e la scossa di terremoto.


Oggi mi sono svegliata con questa certezza. Qui c’è un sacco di gente che vorrebbe il terremoto. Si si, qui a Torino. E questa gente è ovunque, è accanto a noi, sul tram, al supermercato. Si ti vedo, sei tu, vecchiettina maledetta. Seduta sul tuo divano di velluto bucato dalla brace della pipa del tuo defunto marito, dietro i tuoi occhiali tempestati di brillanti ingialliti dal tempo nascondi due occhi che non vedono l’ora di poter gridare aiuto. Senza scomporti troppo però. La pettinatura deve sopravvivere, anche ad un terremoto. “Una scossa! Eccola! L’ho sentita era una scossssa!”. Anche se è stato il tram che come tutti i giorni alla stessa ora le ha fatto tremare le sue abbondanti chiappe, la nobil donna piemontese corre verso il telefono per chiamare sua figlia e dirle che ha appena sentito il terremoto. Strano che la sua preoccupazione non sia invece stata quella di correre in strada per mettersi in salvo se davvero è convinta di aver sentito una scossa. Non è il terremoto in sé ad essere desiderabile ma il gusto per le calamità naturali, il gusto per quegli eventi collettivi che sconvolgono per forza di cose la routine e la quotidianità di un ampio gruppo di persone. Si perché una tragedia individuale non è la stessa cosa di una tragedia che si può condividere. Anche perché in una tragedia collettiva rimane comunque sempre quella percentuale di probabilità di non essere proprio colpiti direttamente e di conseguenza di avere un sacco di telefonate da fare e di cose da dire. E questo desiderio, inconsapevole (se chiedessi una conferma della mia tesi a quella vecchietta maledetta probabilmente mi tirerebbe in testa la sua borsetta di coccodrillo) nasce dall’umano, universale bisogno di sentirsi vivi. E ognuno ha il suo modo per sentirsi vivo. Desiderare un terremoto lo ritengo un metodo discutibile ma tant’è. È lo stesso motivo per cui io ogni tanto devo fare qualche cazzata. Piccole cazzate, che se proprio non rappresentano una dimostrazione particolarmente elevata della mia esistenza sulla terra per lo meno mi rallegrano le giornate e che sommate una all’altra sicuramente fanno di me una gran rincoglionita. E me le rallegrano perché preferisco riderci su perché volendo potrei farmi un piantino o flaggellarmi a ripetizione. Sono sempre scelte d’altronde. Ultimamente di cazzate ne ho collezionate una serie. Nel giro di pochissimo tempo mi è caduto uno dei miei anelli preferiti nel lavandino di un ostello che puzzava di fogna, e non ho fatto una piega perché mi capita talmente spesso che ci ho fatto l’abitudine e ho pensato che dovesse essere un buon motivo per tornare finalmente in quel posto dove me l’avevano comprato e dove devo tornare da tre anni e non ci sono ancora tornata. Ho perso per un mese la carta d’identità e non me n’ero accorta, me ne sono accorta perché l’altra sera mia madre mi ha detto “tieni, devo darti una cosa” e mi ha messo in mano la mia carta d’identità e ci ho messo un attimo a capire perché la mia carta d’identità non fosse nella mia borsa dentro il mio portafoglio. Ho passato  due giorni a cercare un’agenda che mi sono comprata perché mi piaceva tantissimo perché fuori è fatta come se fosse una bibbia e dove sto cercando di scrivere il mio vangelo, per poi ritrovarla in fondo ad uno  zaino dopo aver finalmente fatto le pulizie, e sentirmi per un attimo felice prima di dimenticarmi che cosa ci volessi scrivere. Ho perso il cellulare per mezza giornata, mandato uno sconfinato elenco di mail a tutti gli amici e i parenti per avvisarli della triste perdita e perché nessuno si preoccupasse se non rispondevo e ho poi scoperto che il cellulare era semplicemente dove doveva essere, nella mia borsa in mezzo a palline di scontrini del 2008 e cicles che non ho avuto cuore di buttare per terra perché rispetto la natura e soprattutto le suole altrui,  e che per questo, quando hanno perso il loro favoloso succoso gusto, li ho accuratamente appallottolati negli scontrini del 2007. In questo momento posso anche immaginare che qualcuno piuttosto che fare le cazzate che faccio io preferirebbe sentire una scossa di terremoto. Io invece oggi mi sento fortunata di essere nata in Piemonte e non in Abruzzo. Perché nonostante le cazzate che faccio sono viva, sto bene, ho una casa, un lavoro  e soprattutto non ho perso nessuno. E forse questo è ciò che si dimentica la vecchietta quando trascina il suo grande culo verso il telefono gridando aiuto. Che queste calamità, queste tragedie dovrebbero solo farci alzare con il sorriso e ricordarci che la vita è preziosa sempre e merita rispetto.E soprattutto che esistono soluzioni più felici per sentirsi vivi dell’inconscio desiderio che arrivi un terremoto.

 

Ultima cazzata. Da un mese il bancomat mi fa ritirare i soldi solo nella mia banca e non nelle altre. Mi dicono che la carta non è abilitata. La cosa più ovvia sarebbe stato ovviamente chiamare la banca. Ma non l’ho fatto. E l’altro ieri mi è arrivato (cioè è arrivato a casa dei miei perché la banca non si fida a mandarmi le lettere nella mia nuova residenza) un nuovo bancomat. Solo che ora non so che farci con questo nuovo bancomat. Ma per fortuna domani sono in vacanza e magari prendo la bici e vado in banca.

Ricordi di settembre 2008.

Sono le sette del mattino. Reduce da dieci ore di pulman senza sonno accanto ad un francese che mi russa nell’orecchio. Mi diverto a guardare la posizione della gente mentre dorme. Una testa penzolante, una fronte schiacciata contro un finestrino, le ginocchia tirate su che spingono il sedile davanti. Quando apro la tendina blu spessa e puzzolente mi abbaglia il primo raggio di un sole che mi riscalderà il sangue per tutta la vita. Arrivo in spiaggia. La sabbia è così bianca che mi acceca. Sole nel cielo, sole per terra, sole sottacqua. Guardo l'oceano e ho pensato come forse hai pensato tu la prima volta che ci sei arrivato, di aver trovato il paradiso. C’è pocchissima gente. Mi dicono che è tutto pieno ma io non vedo nessuno. Solo dopo qualche giorno inizio a capire che qui i ritmi sono solitari e silenziosi. È il corso della luce e la corrente del mare a regolare il nostro respiro. Conosco te. Sento qualcosa. È ancora inconsapevole, inafferrabile, non ha nome e non ha una definizione. È uno sguardo. È la pelle che anche solo sfiorandosi per sbaglio si riconosce subito. Ce ne sono pochi di incontri come questi nella vita. Sono quelli che bruciano così intensamente e con così tanta forza da lasciare un meraviglioso segno indelebile dentro di noi e che spesso, con la stessa rapidità con cui si accendono, con la stessa, si spengono. Appena mi tolgo gli occhiali scuri e lascio che tu veda i miei occhi ho pensato “ecco, questo è un altro incontro dell’anima”. E nel momento in cui ci siamo visti ci siamo anche persi. Uno nell’altro. Poi dal paradiso cado dritta nell'inferno. Quello del dolore di una perdita, dello spavento di fronte alla morte, della paura e di un incubo che ritorna e che ora capisco, non si può pretendere di non vivere mai più. Una persona che un giorno c'è e il giorno dopo non c'è più. Ed è così inaspettato che ancora oggi ogni tanto credo che la mia amica debba tornare dalle vacanze. Prima o poi. O forse, semplicemente, rimarrà in vacanza per sempre. Ma in quel momento ho sentito le urla dell’infinto. Urla che non si cancelleranno mai. E tu mi raccogli, in un abbraccio, mi tieni su con la punta delle dita quando sono ad un centimetro dalla sabbia. Tu ci credi nel fatto che in un abbraccio ci possa essere già tutto quanto? Tutto il passato e il futuro? Io ci credo. Nonostante tutto. Io ci credo. Solo che la vita non è solo aria la vita è anche umida. Quel giorno ti sei preso cura di me. Ma non c'è stato solo pensiero, c'è stata la nostra pelle che oltre a riconoscersi ha iniziato a provare un doloroso bisogno reciproco. Quel bisogno che ti fa dire, “ho sete”. Sempre più sete. E in quel momento, mi sono chiesta come fosse possibile provare dolore, amore, passione, tristezza, felicità nello stesso istante. Ed c’era così tanto dentro di me che ho smesso di parlare. Ed c’era così tanto dentro di me che non ho potuto fare a meno di accettare. Tutto. E quando un giorno mi hai detto "è stata una settimana difficile". In quel "difficile" ho capito che tu avevi sentito insieme a me esattamente tutto quello che avevo sentito io. E mi sono chiesta cosa ci fosse di reale in questo dolore e in questa felicità. Perché molte volte nella vita ho sentito tutto con una tale intensità, da sentire per due. E nel momento in cui mi sono spenta per un attimo...non è rimasto più nulla. Tu cos'hai sentito oltre a quello che ho sentito io? Ma forse non mi importa saperlo. Perché tutto quello che ho sentito è reale per il semplice fatto che l'ho sentito. Perché so chi sono. E che qualsiasi sentimento prezioso è per sempre. Anche quando ad un certo punto rimane solo un ricordo. Ora non vedo solo magia ma vedo anche la terra e la sua umana umidità. E mi piacerebbe tanto ora vederla anche con i tuoi di occhi la nostra realtà. Perché mi mancano, i tuoi occhi. Perché voglio difendere i miei bei ricordi. E perché le parole a volte aiutano a sentirsi più vicini. E so che se sono partita pensando di trovare qualcosa…Così è stato. Perché ho trovato una grande lezione. Quella di imparare ad accettare.

Il risotto e la sostanza.


Anche io ho i miei difetti. Il primo, il più difficile da comprendere è accettare il fatto che ogni tanto io abbia bisogno di farmi i fatti miei. Forse pare strano, che a volte io non abbia voglia di chiacchierare, di andare a prendere il caffè in due, di andare a fare la spesa in due, di andare in farmacia in due. Soprattutto sono sempre stata assolutamente incapace di parlare tanto per farlo. Sostenere una di quelle conversazioni che tanto piacciono alle donne su smalto, vestiti, cucina, o spettegolare con la schermata di facebook sotto gli occhi rappresenta per me una vera e propria tortura. Divento così insofferente che oltre ad entrare immediatamente in standby, non guardo chi mi sta parlando e mi metto a fare altro. È più forte di me. Forse il mio cinismo sta raggiungendo dei livelli che non credevo possibili, ma negli ultimi giorni ho un pensiero ricorrente: la vita è breve e il mio tempo lo voglio sfruttare per conoscere e scoprire ed evolvere attraverso esperienze di qualità, profonde nel bene e nel male. Che sia una risata o un pianto pretendo che sia intenso, vero, qualcosa che ripensandoci il giorno dopo o anni dopo consideri meritevole di aggiudicarsi il titolo di “ricordo”. Il tempo. Ho una strana ansia nei confronti del tempo. Mi sento in dovere di non perdere tempo. Di non sedermi se c’è un problema e di cambiare le cose quando non vanno come vorrei. Per lo meno sapere di averci provato. Non esiste per me la frase “eh va beh io sono fatta così”. Eh va beh se sei fatto male datti da fare per vivere meglio e di più. E soprattutto smettila di lasciarti vivere. Non sopporto chi si piange addosso.

Ed è per questo che ormai, alcuni momenti liberi della mia giornata si sono trasformati in un perenne tentativo di fuga da discorsi noiosi e da chi perennemente sulla difensiva per ragioni che non ho nemmeno voglia di approfondire, trasforma quello che potrebbe essere uno piacevole scambio in un inutile gioco di ruolo. Non che io non abbia le mie forme di difesa. Ma le mie, credo di poterlo affermare con certezza, non rompono le palle a nessuno se non a me stessa. Non sopporto chi si prende troppo sul serio, su questioni che non sono davvero serie, chi ha paura di fare per un attimo il coglione per paura di essere considerato coglione e basta. Non sopporto chi cita nomi di scrittori, poeti, registi, libri, giornalisti, specialisti, enigmisti, ogni due parole e quando deve metterci un po’ di sostanza propria il foglio rimane vuoto. Che senso ha conoscere a memoria tanti nomi se poi non riesci a formulare un pensiero tuo? Se ho voglia di fare la stupida per vivere un attimo di spensieratezza lo faccio, senza paura di essere considerata stupida davvero….o forse il punto è che non mi pongo proprio il problema.
Ma ritornando ai miei momenti di pausa…
Oggi si parlava di risotto. Le giovanissime appena andate via dalla casa di papà e mamma per avventurarsi in una quiete convivenza con i fidanzati, affascinate dal fatto di potersi finalmente dedicare alla fedele riproduzione del ruolo di casalinghe imparato dalle proprie madri, mi raccontano per filo e per segno le appassionanti avventure/sventure di risotti riusciti male a causa di un inaspettato ritardo degli ospiti. Alla parola risotto mi è già scattata l’insofferenza. Aspetto il momento giusto per non sentirmi dire “vengo anche io” e scappo sotto il sole. Da sola, sorridente, felice. E mi rendo conto che spesso c’è già abbastanza rumore inutile nella mia testa e non ne voglio altro. E da sola posso mettermi a leggere, posso scrivere, posso guardare un film, posso guardarmi intorno… E il silenzio ritorna. E io posso fare un po’ di ordine dentro di me ripensando a cos’ho fatto e cosa voglio fare. Forse mi sono abituata troppo bene al fatto di non dover render conto di niente a nessuno. Forse faccio così perché in certi momenti do tutta me stessa. Quando ci sono, ci sono, e “ti solleverò dai dolori e dai tuoi sbalzi d’umore dalle ossessioni e dalle tue manie”, non sempre però. Anche io ho bisogno di arricchirmi e se cerchi di volermi sempre tutta per te, se cerchi di prendermi non ci riesci. Perché scivolerò dalle tue mani e ricomincerò a nuotare. Per un semplice motivo. C’è troppo da vivere. E ho la pretesa di pensare che l’amore e l’amicizia debbano essere un’amplificatore della libertà. La libertà di accompagnarsi senza possedere. 
E c’è chi mi accompagna e io accompagno da sempre e lo farà per sempre. 
E a me questo basta, per sentirmi più sicura, quando cammino da sola.