[ÈRMY-TAGE] s.f.
Attività mentale che si svolge grazie al cielo solo durante il sonno, caratterizzata da impressioni visive degne di una tragedia greca, sensazioni e pensieri non coordinati tra loro logicamente ma esprimenti tutte le parti di me, anche quelle che non sopporto. Voci, quelle che ho chiuso in un cassetto così profondo che si apre solo quando dormo. Ermytage è la fase in cui il cassetto si apre e le immagini vengono liberate. Di Anna Ponti.
Il sogno che non sognavo.
Non sognavo niente di tutto questo. Non sognavo un posto fisso, non sognavo una vita stabile a Torino, non sognavo di avere un figlio. Anzi. Fino a tre anni fa pensavo che non avrei mai avuto figli perché, come mi piaceva tanto sentirmi ripetere, “non sono portata per fare la madre! Dai mi immagini? Me, Anna, con un figlio? Naaaaaa”. Non credevo nemmeno nell’istinto materno se è per questo. Per lo meno non in quello che allora pensavo fosse l’istinto materno. Quando le mie amiche mi dicevano “Sento di volere un figlio, sai, è un istinto, è un bisogno naturale” io le guardavo male. “Io non sento proprio nulla! Non dobbiamo fare figli per forza!”. Non ho cambiato idea da questo punto di vista. Non penso che una donna si realizzi solo facendo un figlio e non penso che non avere figli si debba considerare come un fallimento personale. Dipende. Dipende dal proprio percorso e io non pensavo che i figli facessero parte del mio. Fino a tre anni fa non pensavo nemmeno che sarei finita in una grande agenzia. Anzi. Dicevo spesso “Ho una sola certezza. Io là non ci andrò mai a lavorare”. E poi è successo che mi sono innamorata. E questo sì lo sognavo. Sognavo, come ognuno di noi, di incontrare la persona giusta. Il fatto è che non l’ho incontrata. C’era già ma solo tre anni fa ho capito che ero finalmente libera di sceglierla e di amarla il più a lungo possibile. L’abbiamo deciso insieme. “Ci possiamo amare? Sì. Siamo anche liberi di avere paura? Sì sì.” Da quel momento la mia vita è cambiata. In quel momento ho scoperto che la felicità è una cosa normale e vicina. E ho cambiato agenzia, ho cambiato casa, ho cambiato abitudini, non tutte, e poi sono rimasta incinta. Sono incinta. E sto scoprendo che invece di farmi diventare più seria, l’idea di diventare madre ora mi sta rendendo più libera. E ho ricominciato a sorridere. E ho imparato a dire tutto quello che penso. E questa bambina che cresce dentro la mia pancia mi sta facendo ritrovare il coraggio di essere, la persona che avevo sempre voluto diventare. Perché sogno per lei, le stesse libertà che sto cercando di prendermi io. E all’improvviso mi rendo conto che non sognavo niente di tutto ciò e che non sono mai stata così felice. E sento di avere tutto quello di cui ho bisogno e non vorrei nient’altro al mondo se non questa mia immensa, concreta, stabile esistenza. Non sognavo la vita che sto vivendo, ma questo mio presente per me, ora, è come un sogno.
Contenuti latenti ma nemmeno troppo.
"Si definiscono contenuti latenti di un sogno quei contenuti mascherati dagli elementi simbolici che vengono indicati col termine "contenuto manifesto". Attraverso l'interpretazione analitica dei simboli contenuti nel sogno si riesce ad arrivare alla ricostruzione dei contenuti inconsci che, altrimenti, non potrebbero apparire alla coscienza".
Immagino che il fatto che io abbia sognato di essere in un’agenzia di pubblicità, a Copenhagen, seduta su un davanzale in mutande e maglietta mentre tutti i miei nuovi colleghi nordici mi passavano davanti guardandomi con aria stupita sia da interpretare come un contenuto latente. Sì.
Fallo un sogno ogni tanto.
Ho ricominciato a sognare. Non capitava da un paio di mesi. Non so se esserne felice oppure no. Forse no, visto che mi sono svegliata nelle stesse condizioni di un principiante alle prese con una maratona. Crampi alle gambe e i capelli più crespi di Whoopy Goldberg. Ho sognato che ero su un aereo diretto ad Abu Dhabi e che per colpa di un incidente (o di un attacco terroristico non ricordo) rischiavo la vita per riparare il motore. Una performance che nemmeno Tom Cruise in Mission Impossible. Salvavo tutti, nessuno mi ringraziava e arrivati ad Abu Dhabi non avevo il costume per farmi un bagno in mare. La mia domanda alla fine però è: cosa diavolo stavo andando a fare ad Abu Dhabi?
Hai detto "Rinoceronti"?
Ultimamente vedo mandrie di rinoceronti in fuga. Mentre parlo, mentre fisso il vuoto con quel mio modo unico di alienarmi. Me ne sto lì, buona buona, zitta zitta ed ecco che la sedia sotto il mio culo inizia a tremare e una ventina di rinoceronti sfrecciano davanti ai miei occhi sollevando pensieri. Accolgo queste visioni come una liberazione. Immagino di attaccarmi alla coda del rinoceronte e di farmi portare via al volo, nel cuore della steppa africana. Adios amigos!
La prima pagina del romanzo.
Il cielo è terso, i dettagli sono nitidi perfetti, immobili. All’inizio è un semplice soffio di vento. Le foglie sugli alberi iniziano a tremare cercando di lanciarci un segnale che non vogliamo vedere. Poi arrivano le nuvole bianche che subito diventano nere e si gonfiano, convulse, come polmoni pieni di catrame. Infine arriva la pioggia e noi siamo lì ancora distesi sul prato, come se ci fosse ancora il sole e quell’acqua gelida, sporca, carica di polveri sottili ce la prendiamo tutta. In testa, negli occhi, sul naso. È così che tutto cambia in una manciata di secondi. Basta un istante e tutti gli equilibri si rompono e un giorno ti svegli e non sai più chi sei, e non sai più quello che vuoi. Luigi aveva la vita che si aspettava ed era proprio il fatto di conoscerla così bene a rassicurarlo. Stava frequentando il secondo anno dell’università di Filosofia, non si era mai allontanato da casa, aveva una fidanzata, Caterina, con cui stava insieme dai tempi del liceo, degli amici con cui condividere una volta alla settimana una partita a calcetto, i concerti, gli aperitivi nei locali giusti e le lasagne della mamma la domenica. Non sapeva che cosa avrebbe fatto dopo l’università e non gli importava. E andava tutto bene così. Gli andava bene così. Non desiderava altro o forse non desiderava nulla.
Una strana parola: Umanità.
Siamo immersi in un fiume di informazioni, parole, foto, video, immagini, contenuti, blog, siti, status su facebook, twitterate, forum, chat. Le cose più semplici in un secondo diventano banali. Abbiamo l’ansia di perderci in questo mare dove tutto sembra appiattirsi, uniformarsi, come una macchia di denso petrolio che si allarga mangiando tutto ciò che incontra. Per questo a volte preferiamo stare zitti, cercando di mantenere un giudizio, critico, esclusivo, controcorrente, nei confronti della realtà. Ci informiamo, approfondiamo senza troppa fatica qualunque argomento ci interessi, seduti davanti al nostro computer con il viso sempre più corrucciato e un numero infinito di rughe sulla fronte. Tutto questo ha i suoi lati positivi. Chi sceglie di non perdersi nell’oceano della massa, sceglie di lottare per mantenere una mente indipendente. Esistono però dei lati negativi. Perché in questa lotta per l’individualismo in realtà smettiamo anche noi di essere liberi. Perché iniziamo a vergognarci di utilizzare parole che ormai ci sembrano banali e prive di significato come “pace” e “umanità”. Pensiamo che menzionare termini come “amore”, al di fuori di un contesto più approfondito, sia stupido e sintomo di ignoranza. Rimanere colpiti dalla morte di Vittorio Arrigoni non significa dichiararsi “pacifisti”. Non credo di essere minimamente in grado di giudicare questo fatto da un punto di vista politico, sociale, storico. Non ci provo nemmeno anche se mi piacerebbe capire. Mi colpisce quella che Arrigoni chiama, giustamente la perdita della propria umanità. Perché so che può succedere. Perché mantenere la propria umanità quando si nasce nella violenza, nel sangue, nel dolore, nella perdita, nella paura, circondati da odio, buio, fuoco, armi, rabbia, pelle squarciata, bruciata, martoriata, è impossibile o troppo pericoloso. Arrigoni non era un santo. Era una persona che per qualche motivo che noi non possiamo davvero conoscere, ha deciso di camminare sulla striscia della morte. Questo non stupisce nessuno. Rimanere colpiti da quella violenza senza speranza, senza uno spiraglio di luce, questo sì è importante. È il sintomo della nostra umanità e non dobbiamo darlo per scontato anche se abbiamo la fortuna di vivere lontani da quell’inferno in cui la vita ha sempre meno valore. Nessuna parola rimarrà davvero vuota, anche se viene utilizzata da miliardi di persone, se nel momento in cui la pronunciamo il nostro cuore riesce a provarne il significato. Dico amore se provo amore. Dico dolore se provo dolore. Dico rabbia quando provo un’infinita rabbia nel vedere quanto poco spazio lasciamo all’espressione delle nostre emozioni. Dico paura quando mi fa paura vedere che non abbiamo più nemmeno il coraggio di scegliere di stare con il nostro cuore. Queste sì, sono briciole di umanità, della nostra umanità, che senza che ce ne rendiamo conto, perdiamo inesorabilmente per strada. E dico mi dispiace per Arrigoni. Mi spiace che sia morto e che abbia sofferto. Tutto qui. Non credo nella pace nel mondo ma ogni volta che posso, scelgo e sceglierò la parola "pace".
Il mio debito con l'universo.
Nel corso del tempo ho imparato a dire “mai dire mai”. Una sorta di motto che amo ripetermi perché il mio inconscio non si dimentichi di lasciarmi libera. Questo perché da sempre una parte di me tende inesorabilmente ad aggrapparsi alle abitudini e un’altra parte ha invece un viscerale bisogno di continui cambiamenti. Normalmente le abitudini finiscono per deprimermi e i cambiamenti, nonostante la splendida dose di adrenalina che mi regalano, mi rendono insonne. A settembre ho ripreso una brutta abitudine, usare la macchina per andare a lavorare. La macchina, rispetto alla bicicletta è un potentissimo portatore malsano di quotidianità. Percorsi sempre uguali, la radio sintonizzata sempre sullo stesso canale, l’occhio sempre puntato sui minuti che scorrono. Il percorso che faccio la sera per tornare a casa mi angoscia particolarmente. Perché è lì, al fondo di corso Massimo che 4 mesi fa si è aperto il mio debito con l’universo.
Una sera di novembre mi sono infatti fermata come sempre al semaforo e buttando un occhio sul bordo della strada ho visto 10 euro per terra. Con l’aria furtiva come una ladra e rapida come una gazzella ho aperto la portiera, ho afferrato famelica i 10 euro, sono risalita in macchina e sono ripartita sgommando. Ho iniziato a sentirmi in colpa un minuto dopo. Sì, perché al fondo di quel semaforo normalmente c’era un peruviano claudicante al quale non ho mai dato nemmeno un centesimo. Lo vedevo avvicinarsi sofferente alla mia macchina e io continuavo a guardare dritto per non lasciarmi impietosire. Una presenza costante che si è volatilizzata dalla mia vita proprio quel giorno in cui ho trovato quei 10 euro. Ho subito pensato “ora sono in debito con l’universo di 10 euro, prima o poi mi verrà chiesto di estinguerlo. Devo darli il prima possibile al peruviano”. Da quel giorno non l’ho più visto e il mio senso di debito ha continuato a crescere trasformandosi in una spece di spada di damocle pronta a trafiggermi da un momento all’altro.
Al posto del peruviano claudicante è poi comparso il peruviano delle rose. Un peruviano piccolo piccolo con due braccia lunghissime, una testa minuscola, un mazzo di rose in mano e un sorriso dolce come il marzapane. Una quotidiana presenza angosciante che ho sempre cercato di ignorare senza riuscirci.
Ieri sera, dopo una giornata all’insegna della bestemmia mi fermo al semaforo e decido che è arrivato il momento di riscattarmi dai miei peccati. Presa da un attimo di irrefrenabile entusiasmo apro il portafogli pronta ad estinguere il mio debito, mi accorgo di avere solo 5 euro e decido di darglieli comunque. Non lo estinguo ma almeno lo dimezzo! Ho pensato.
Il piccolo rosario si avvicina pronto a ricevere da parte mia il solito sofferente no dimostrato con un sottomesso cenno del capo. Invece lo guardo, sorrido, tiro giù il finestrino, gli do i miei ultimi 5 euro, mi commuovo per la sua gratitudine, ricevo in cambio tre fantastiche minuscole rose, le macchine dietro di me iniziano a suonare perché nel frattempo il semaforo è diventato verde ed io riparto sgommando, colma di un’immenso, profondissimo amore nei confronti dell’universo intero. Ecco, ho pensato, ora tutto andrà meglio, rosario è felice, io sono felice, la spada ora è solo più uno spadino e il mio cuore ha ricominciato a sorridere. Oh meraviglia delle meraviglie, la vita è proprio una magia, una catena di attimi perfetti e indimenticabili.
Arrivo vicino a casa e incredibilmente trovo parcheggio proprio sotto il portone. Ecco, la catena di conseguenze buone è già iniziata! Decido di andare a comprare qualcosa al supermercato. Sono distutta, non vedo l’ora di essere a casa ma muoio di fame e in frigo non c’è nulla. Cammino a fatica barcollando sui miei tacchi consumati, raggiungo il supermercato, riempio il cestino, arrivo alla cassa metto la mano nella borsa e mi accorgo di aver lasciato il portafogli in macchina. Eh già, penso, l’ho tirato fuori prima per estinguere il debito. Avviso la cassiera e le dico che corro a prendere il portafogli e torno. Cammino a fatica fino alla macchina, prendo il portafogli, cammino di nuovo fino al supermercato, la cassiera mi guarda e mi dice “sono 11 euro e 21 cara”. Io mi ricordo di aver finito i soldi e le dico che devo pagare con il bancomat “eh no cara! Non puoi! Abbiamo già fatto lo scontrino devi andare a prelevare”. Esco dal supermercato, cammino a fatica fino al primo bancomat, aspetto ben 15 minuti perché una signora chiusa dentro il gabbiotto aveva forse deciso di farsi la pedicure, riesco finalmente a ritirare, cammino a fatica fino al supermercato e do 50 euro alla cassiera. La cassiera mi dà il resto. Guardo bene le banconote e vedo che mi ha dato ben 30 euro in più. “Signora guardi che mi ha dato troppo!”. Le restituisco i soldi, prendo la mia spesa, mi trascino fino alla macchina sotto casa, prendo il resto della mia roba e vedo le rose: va beh dai, non mi compro mai i fiori ora per riprendermi vado su e le metto in un bel vaso. Arrivo fin su e mi accorgo di aver perso le rose per strada.
La prossima volta che trovo 10 euro magari mi vado a bere un prosecco.
Una sera di novembre mi sono infatti fermata come sempre al semaforo e buttando un occhio sul bordo della strada ho visto 10 euro per terra. Con l’aria furtiva come una ladra e rapida come una gazzella ho aperto la portiera, ho afferrato famelica i 10 euro, sono risalita in macchina e sono ripartita sgommando. Ho iniziato a sentirmi in colpa un minuto dopo. Sì, perché al fondo di quel semaforo normalmente c’era un peruviano claudicante al quale non ho mai dato nemmeno un centesimo. Lo vedevo avvicinarsi sofferente alla mia macchina e io continuavo a guardare dritto per non lasciarmi impietosire. Una presenza costante che si è volatilizzata dalla mia vita proprio quel giorno in cui ho trovato quei 10 euro. Ho subito pensato “ora sono in debito con l’universo di 10 euro, prima o poi mi verrà chiesto di estinguerlo. Devo darli il prima possibile al peruviano”. Da quel giorno non l’ho più visto e il mio senso di debito ha continuato a crescere trasformandosi in una spece di spada di damocle pronta a trafiggermi da un momento all’altro.
Al posto del peruviano claudicante è poi comparso il peruviano delle rose. Un peruviano piccolo piccolo con due braccia lunghissime, una testa minuscola, un mazzo di rose in mano e un sorriso dolce come il marzapane. Una quotidiana presenza angosciante che ho sempre cercato di ignorare senza riuscirci.
Ieri sera, dopo una giornata all’insegna della bestemmia mi fermo al semaforo e decido che è arrivato il momento di riscattarmi dai miei peccati. Presa da un attimo di irrefrenabile entusiasmo apro il portafogli pronta ad estinguere il mio debito, mi accorgo di avere solo 5 euro e decido di darglieli comunque. Non lo estinguo ma almeno lo dimezzo! Ho pensato.
Il piccolo rosario si avvicina pronto a ricevere da parte mia il solito sofferente no dimostrato con un sottomesso cenno del capo. Invece lo guardo, sorrido, tiro giù il finestrino, gli do i miei ultimi 5 euro, mi commuovo per la sua gratitudine, ricevo in cambio tre fantastiche minuscole rose, le macchine dietro di me iniziano a suonare perché nel frattempo il semaforo è diventato verde ed io riparto sgommando, colma di un’immenso, profondissimo amore nei confronti dell’universo intero. Ecco, ho pensato, ora tutto andrà meglio, rosario è felice, io sono felice, la spada ora è solo più uno spadino e il mio cuore ha ricominciato a sorridere. Oh meraviglia delle meraviglie, la vita è proprio una magia, una catena di attimi perfetti e indimenticabili.
Arrivo vicino a casa e incredibilmente trovo parcheggio proprio sotto il portone. Ecco, la catena di conseguenze buone è già iniziata! Decido di andare a comprare qualcosa al supermercato. Sono distutta, non vedo l’ora di essere a casa ma muoio di fame e in frigo non c’è nulla. Cammino a fatica barcollando sui miei tacchi consumati, raggiungo il supermercato, riempio il cestino, arrivo alla cassa metto la mano nella borsa e mi accorgo di aver lasciato il portafogli in macchina. Eh già, penso, l’ho tirato fuori prima per estinguere il debito. Avviso la cassiera e le dico che corro a prendere il portafogli e torno. Cammino a fatica fino alla macchina, prendo il portafogli, cammino di nuovo fino al supermercato, la cassiera mi guarda e mi dice “sono 11 euro e 21 cara”. Io mi ricordo di aver finito i soldi e le dico che devo pagare con il bancomat “eh no cara! Non puoi! Abbiamo già fatto lo scontrino devi andare a prelevare”. Esco dal supermercato, cammino a fatica fino al primo bancomat, aspetto ben 15 minuti perché una signora chiusa dentro il gabbiotto aveva forse deciso di farsi la pedicure, riesco finalmente a ritirare, cammino a fatica fino al supermercato e do 50 euro alla cassiera. La cassiera mi dà il resto. Guardo bene le banconote e vedo che mi ha dato ben 30 euro in più. “Signora guardi che mi ha dato troppo!”. Le restituisco i soldi, prendo la mia spesa, mi trascino fino alla macchina sotto casa, prendo il resto della mia roba e vedo le rose: va beh dai, non mi compro mai i fiori ora per riprendermi vado su e le metto in un bel vaso. Arrivo fin su e mi accorgo di aver perso le rose per strada.
La prossima volta che trovo 10 euro magari mi vado a bere un prosecco.
La Patente di guida dieci anni dopo.
10 Febbraio 2001.
Sono in macchina. Attaccato alla ventola dell’aria c’è un deodorante alla vaniglia che vorrebbe coprire l’odore dei ragazzi che hanno guidato prima di me. Il risultato è un tanfo acido e nauseante. Mi sembra di essere nella seconda classe del regionale Torino – Milano. Oggi proprio non ce la faccio. Non riesco a rimanere concentrata. Mi sento fragile come lo strato di caramello della crema catalana e mi sembra tutto troppo difficile. Di fianco a me c’è un istruttore di guida con cui non avevo mai fatto lezione prima. È giovane, ha i capelli tagliati a spazzola, le guance scavate e gli zigomi a punta come lo spigolo del letto dei miei genitori dove continuo a sbattere il mignolo del piede. Ho un'unghia nera da 4 mesi. Dicono che ci voglia un anno perché ricresca completamente. La guarigione a volte è un percorso lungo che richiede moltissima pazienza e una speranza di ferro. Oggi è andata così: mi è capitato l’istruttore sbagliato nella giornata peggiore. Mister spazzola mi parla a stento e in malo modo. Mi agito. Non riesco ad ingranare la terza. Mister spazzola inizia ad innervosirsi. Io mi agito ancora di più. La macchina si spegne. Le auto dietro di noi iniziano a suonare. Mister spazzola mi urla addosso. Io comincio a piangere. In silenzio. Le lacrime scendono lungo le mie guance mentre con piccoli lentissimi gesti cerco di mantenere l’ultima briciola di controllo che mi è rimasta.
La perdo nel momento in cui una lacrima invece di scendere rimane lì, ad annacquare il mio occhio destro. Mi si annebbia la vista.
Due giorni dopo ho dato l’esame di pratica per prendere la patente.
10 febbraio 2011.
Sono seduta sulla panchina dell’area di attesa dell’ACI. Fra due giorni mi scade la patente. Di fianco a me c’è un ragazzino con una costellazione di brufoli della giovinezza sulle guance e un libro di letteratura greca sulle ginocchia. Suona un cellulare. Il ragazzino risponde - ciao papà, sono all’Aci devo prenotare la lezione di guida - fa leggermente fatica a trovare le parole come se avesse qualcosa da nascondere e riconosco molto bene quell’opprimente perenne ingiustificato senso di colpa - il compito - mah credevo fosse andato benissimo in realtà poi ho scoperto di aver sbagliato un po’ di cose….comunque credo abbastanza bene - ora che ha sputato il rospo sembra più tranquillo - quando tornate? - a 18 anni è sempre una festa quando i genitori partono ed è fondamentale conoscere bene l’ora del loro ritorno per mettere la casa in ordine - ah ok , si, va bene, a domani allora, ciao - Il ragazzino torna a leggere il suo libro di letteratura Greca sottolineato già due volte, una con un evidenziatore giallo e l’altra con una penna nera. Mi tornano in mente Mister spazzola, la patente che sono poi riuscita a prendere senza troppi problemi nonostante quel problemino con la terza e la guarigione che è poi arrivata. Penso al mio sguardo che si rompeva non appena qualcuno mi manifestava un accenno di rabbia e penso a quanto spesso io sia cresciuta proprio grazie a loro. Penso al mio cuore e a tutta la strada che ha dovuto fare per sciogliere lo strato di ghiaccio che lo ricopriva e penso a come ogni fase della vita sia speciale per quello che è, se vissuta intensamente e con coraggio. Anche questa nuova fase è speciale. La fase in cui sono diventata grande, più forte e finalmente capace di amare e lasciarmi amare. Oggi la vita non mi fa più paura e la rabbia...beh la rabbia la manifesto in diversi modi, ad esempio sognando incredibili vulcani in eruzione in Valle d'Aosta.
Il suono del pannello elettronico mi strappa dai miei pensieri. È il mio turno e mi sento felice.
Sono in macchina. Attaccato alla ventola dell’aria c’è un deodorante alla vaniglia che vorrebbe coprire l’odore dei ragazzi che hanno guidato prima di me. Il risultato è un tanfo acido e nauseante. Mi sembra di essere nella seconda classe del regionale Torino – Milano. Oggi proprio non ce la faccio. Non riesco a rimanere concentrata. Mi sento fragile come lo strato di caramello della crema catalana e mi sembra tutto troppo difficile. Di fianco a me c’è un istruttore di guida con cui non avevo mai fatto lezione prima. È giovane, ha i capelli tagliati a spazzola, le guance scavate e gli zigomi a punta come lo spigolo del letto dei miei genitori dove continuo a sbattere il mignolo del piede. Ho un'unghia nera da 4 mesi. Dicono che ci voglia un anno perché ricresca completamente. La guarigione a volte è un percorso lungo che richiede moltissima pazienza e una speranza di ferro. Oggi è andata così: mi è capitato l’istruttore sbagliato nella giornata peggiore. Mister spazzola mi parla a stento e in malo modo. Mi agito. Non riesco ad ingranare la terza. Mister spazzola inizia ad innervosirsi. Io mi agito ancora di più. La macchina si spegne. Le auto dietro di noi iniziano a suonare. Mister spazzola mi urla addosso. Io comincio a piangere. In silenzio. Le lacrime scendono lungo le mie guance mentre con piccoli lentissimi gesti cerco di mantenere l’ultima briciola di controllo che mi è rimasta.
La perdo nel momento in cui una lacrima invece di scendere rimane lì, ad annacquare il mio occhio destro. Mi si annebbia la vista.
Due giorni dopo ho dato l’esame di pratica per prendere la patente.
10 febbraio 2011.
Sono seduta sulla panchina dell’area di attesa dell’ACI. Fra due giorni mi scade la patente. Di fianco a me c’è un ragazzino con una costellazione di brufoli della giovinezza sulle guance e un libro di letteratura greca sulle ginocchia. Suona un cellulare. Il ragazzino risponde - ciao papà, sono all’Aci devo prenotare la lezione di guida - fa leggermente fatica a trovare le parole come se avesse qualcosa da nascondere e riconosco molto bene quell’opprimente perenne ingiustificato senso di colpa - il compito - mah credevo fosse andato benissimo in realtà poi ho scoperto di aver sbagliato un po’ di cose….comunque credo abbastanza bene - ora che ha sputato il rospo sembra più tranquillo - quando tornate? - a 18 anni è sempre una festa quando i genitori partono ed è fondamentale conoscere bene l’ora del loro ritorno per mettere la casa in ordine - ah ok , si, va bene, a domani allora, ciao - Il ragazzino torna a leggere il suo libro di letteratura Greca sottolineato già due volte, una con un evidenziatore giallo e l’altra con una penna nera. Mi tornano in mente Mister spazzola, la patente che sono poi riuscita a prendere senza troppi problemi nonostante quel problemino con la terza e la guarigione che è poi arrivata. Penso al mio sguardo che si rompeva non appena qualcuno mi manifestava un accenno di rabbia e penso a quanto spesso io sia cresciuta proprio grazie a loro. Penso al mio cuore e a tutta la strada che ha dovuto fare per sciogliere lo strato di ghiaccio che lo ricopriva e penso a come ogni fase della vita sia speciale per quello che è, se vissuta intensamente e con coraggio. Anche questa nuova fase è speciale. La fase in cui sono diventata grande, più forte e finalmente capace di amare e lasciarmi amare. Oggi la vita non mi fa più paura e la rabbia...beh la rabbia la manifesto in diversi modi, ad esempio sognando incredibili vulcani in eruzione in Valle d'Aosta.
Il suono del pannello elettronico mi strappa dai miei pensieri. È il mio turno e mi sento felice.
Inizio 2011. Concretezza.
Pezzettini di carote per terra, batuffoli di pelo, asciugamani bagnati, ciabatte sotto il termosifone, frigo pieno, frigo pieno di barattoli vuoti, bottiglie per terra, cereali per terra, penne per terra, giornali vecchi, libri, pile di libri, dvd, pile di dvd, vestiti, pile di vestiti. Armadi chiusi, armadi semi chiusi, sacchetti da svuotare, gatto sul tappeto, gatto nel lavandino, gatto che fa la guardia, gatto che vomita palle di pelo, gatto vs tutti. Muro. Scritte sul muro. Farfalle. Farfalle sul muro. Vecchio scarpone, scarpa nell’angolo, mutande appese, mutande nel cassetto, teschio appeso, el dia de los muertos, occhio di allah, mano di fatima, pendolo, pipetta, tarocchi, scarpette rosse. Cappelli, cappotti, orecchini, collane, braccialetti, spille, anelli, diademi, amuleti, scatoline, perline, aghi, spille da balia, smalti, smalti secchi, confezioni di medicine vuote, foglietto illustrativo, foglietti illustrativi, bollette da pagare, bollette introvabili, bollette scadute, conto in rosso, economia, abbondanza, spifferi, paraspifferi, stufetta, forno, salta la luce, contatore in cantina, Indiana Jones e il tempio maledetto, alberino di natale del 2008, specchi, disegni sugli specchi, fiori secchi, fiori finti, fiori morti, tappeti arrotolati, sedie rotte, sedie vecchie, sedie di velluto, nano da giardino, macchina da scrivere, cicles, camel light, accendini che non funzionano, calici di vino, vino, incensi tibetani, hummus, taboulet, candele greche, disegni zapatisti, foto, foto di Cate, foto di Lietta, piume, piume rosse, maschere, bolle di sapone, topolini finti, sabbietta del gatto, bottiglia di grappa vuota del 2009, bottiglia di limoncello vuota del 2008, scatole di biscotti, tovagliette di paglia, letto disfatto. Noi abbracciati nel letto disfatto. Famiglia. Sensazione di casa. Felicità. Paura. Felicità. Paura. Felicità. Ansia. Serenità. Sogni. Fazzoletti usati. Vicks vaporub. Mini ciccioli. Felicità. Cose vere. Cose concrete. Cose umide. Cose semplici. Cose belle.
Dalla testa e dalla pancia.
C'è una stanza in cui tutto si azzera. Un luogo in cui il passato scompare e una luce madreperla, compatta e leggera avvolge le pareti, la pelle e il respiro. Prima di entrarci metto da parte tutto quello che mi porto dentro. Metto a tacere tutte le tracce di me. Dimentico il luogo in cui sono stata concepita, l'aereo appena nata, l'inquietudine che danza intorno al fuoco dei miei occhi. Dimentico la cartolina della mia anima. Spedita dalla Russia con amore. Dimentico le persone che non ci sono più. Metto da parte ogni errore e ogni insicurezza. Ogni strappo, ogni momento felice, ogni trasformazione e ogni desiderio. Prendo tutte le cose che mi porto dentro e le lascio lì, in un cestino appoggiato per terra sopra uno zerbino dove c'è scritto solo “Adesso”. È in quel luogo fuori dal tempo che mi concedo la possibilità di essere felice. È in quel caldo e morbido nido di cotone che smetto di avere paura. La vita è così. È una prova di coraggio. È un pensiero che dalla testa ha bisogno di ritornare alla pancia per ritrovare il proprio significato. Perché la pancia non conosce pause di riflessione. Incessantemente cerca nutrimento e soddisfazione.
La tregua dalla mia storia dura un solo istante. Giusto il tempo di nutrirmi e dire grazie. La porta si riapre e tutto ciò che mi porto dentro inizia ad arrampicarsi sulle pareti del cestino del presente. E in mezzo a tante storie e tante domande ci sono due occhi che non smettono di parlarmi. Mi seguono con amore in ogni gesto e in ogni passo. Sono la sospensione in un tempo infinito. Un vuoto profondo in cui ci sta tutto quanto.
La tregua dalla mia storia dura un solo istante. Giusto il tempo di nutrirmi e dire grazie. La porta si riapre e tutto ciò che mi porto dentro inizia ad arrampicarsi sulle pareti del cestino del presente. E in mezzo a tante storie e tante domande ci sono due occhi che non smettono di parlarmi. Mi seguono con amore in ogni gesto e in ogni passo. Sono la sospensione in un tempo infinito. Un vuoto profondo in cui ci sta tutto quanto.
Iscriviti a:
Post (Atom)