Cercasi Farfalla San Bernarda.

C’è poco da fare. Le farfalle mi si stanno riproponendo come la peperonata. Nel senso che ci provo a lasciarmele alle spalle. Voglio dire è un po’ come la febbre suina. Ci provi a nascondere che sei un porco ma tanto prima o poi viene fuori la tua vera natura. E più la reprimi più viene fuori sotto forma di virus. Sotto forma di anomalia. Non che io sia una farfalla. Però a volte faccio come loro. Quindi forse sono una farfalla. Spicco il volo, me la giro di qua e di là per 24 ore e poi uno scarrafone caduto dal cielo non so bene come mi piomba sulle ali, si aggrappa e ovviamente grande e grosso com’è me le spezza e mi schianto volteggiando, e nemmeno con grazia, a terra  facendogli pure da tappetino antiscivolo. Ma dico io non potrebbe esistere per le farfalle una di quelle boracce come quelle che c’hanno i cani grossi, quelli che salvano la gente in montagna, quelli che sembrano bravi e buoni ma che se li fai incazzare ti sbranano…i San Bernardi ecco. Si, dicevo, non potrebbe esistere anche per le esili farfalle una borraccia piena, non di rum ma di insetticida stendi scarrafoni per farli fuori non appena si avvicinano invece di stare lì ad esitare sul da farsi? Una farfalla San Bernarda non esiste? Lo schianto questa volta è stato anche abbastanza epico. Annaffiato da una pioggia di vodka lemon e da un tabaccaio che vedendo la mia faccia sconvolta mi ha pure regalato un accendino. Mi ha regalato un accendino non so se tutti si rendono conto di cosa voglia dire regalare un accendino in tempi di Ccrisi. Che pure l’estetista che mi fa la ceretta parlandomi della crisi mentre mi strappava anche le cellule cerebrali oltre a quelle cutanee alla fine ha gentilmente evitato di farmi il solito sconto. Perché c’è la Ccrisi. “Tieni..” mi ha detto il tabacchinaro. E in quel tieni c’erano un sacco di parole. “Tieni e non piangere bel muso che vedere una ragazza come te piangere mi spezza il cuore” (l’alternativa è “Tieni bella fica non ti preoccupare che te la faccio passare io la tristezza. Minchia). Grazie. Grazie tabacchinaro che almeno tu hai capito. Anche se probabilmente non tornerò mai più da lui io non dimenticherò quell’amabile gesto di solidale pietà nei confronti di una farfalla alla quale uno scarrafone aveva appena spezzato le ali. Tra l’altro quella mattina, quella in cui il volo della farfalla si è tristemente interrotto, la prima cosa che ho fatto quando mi sono svegliata in un lago di lacrime è stato stirare. Il problema è che essendo ancora leggermente sotto i fumi del vodka lemon per capire se il ferro era pronto ci ho messo la mano sopra. E dopo aver dolorosamente stirato ho preso il tram chiedendomi dove diavolo stessi andando. E una volta arrivata vicina al mio ufficio invece di andare in ufficio sono andata a fare la spesa e poi sono entrata dal tabaccaio. Ad ogni modo. C’è poco da fare. I voli che riesco a farmi io non se li fanno in molti. Sono belli eh…vedo un sacco di cose, divento più bella, posso dormire tre ore a notte e non me ne accorgo nemmeno. Belli si. Belli. Peccato che la vita di una farfalla duri solo 24 ore. Sarà per quello che mia sorella a Natale mi ha regalato dei favolosi stickers a forma di farfalle rosse da attaccare al muro? Come per dirmi “Uè, farfallina, rimani un po’ attaccata alla terra!”. Va bene. Ci proverò visto che ultimamente sto provando a fare un sacco di cose. Ma non rinuncio al sogno di vedere prima o poi una farfalla San Bernarda. E poi ora c’è la Nini. La Nini ora è piccola piccola ma un giorno crescerà e se li mangerà tutti gli scarrafoni. Nel frattempo metto un attimo il cuore in pensione aspettando che mi passi la gastrite e l’ossessione degli scarrafoni e nuoto in un brodo di giuggiole quando torno a casa e questo piccolo dono del cielo mi corre incontro urlando “Miu Miu”. Voglio dire, in certi casi “Miu Miu” è una dichiarazione d’amore molto più profonda di tante parole.

 

 

 

Uno scarrafone merita di morire?

L’altra mattina ce l’ho fatta. Appena mi sono alzata sono riuscita a fare quella cosa difficilissima del cambiare la mia prassi mattiniera per imparare ad essere più flessibile. Allora appena la sveglia ha suonato (io ero già sveglia da venti minuti) mi sono alzata e con passo da guerriero armato di tutto punto  contro acerrime abitudini mi sono avviata in bagno per fare la doccia prima di fare colazione. Ma è cosa nota come in ogni guerra degna di memoria  i nemici siano tanti, si nascondano ovunque e si possano palesare in qualsiasi momento. Nel mio caso nel momento in cui ho aperto la porta del bagno.  Perché quando ho aperto la porta del bagno ho sentito per la prima volta una vera nostalgia di quella impavida e  onesta donna che è mia madre. Perché per terra, ribaltato sulla propria sudicia corazza ma pronto a riscattarsi con una corsa da maratoneta mi attendeva un famigerato, lurido, infimo scarrafone. Non ho mai avuto particolari problemi con gli esseri viventi di qualunque genere poiché cresciuta in mezzo alla natura nonché probabilmente concepita vicino alla giungla in sudamerica, abituata da subito a giocare con i vermi della pioggia (quelli che sui prati lasciano quei cumuli di fango raggrumato a palline che non ho mai ben capito se sia la loro cacca oppure no magari dopo su wikipedia controllo) a prendere rospi in mano che mi sputavano l’acqua addosso (non il veleno per fortuna siamo in piemonte non in Nicaragua) e allevato vipere finite in casa per sbaglio. Ma gli scarrafoni, o meglio, blatte europee (bisogna conoscere bene il proprio nemico per poterlo annientare) proprio non li tollero. O meglio proprio mi terrorizzano. È in quei momenti che vivere da sola non mi piace. Solo in quei momenti. Perché in quel momento mia madre avrebbe sicuramente impugnato la pantofola e giustiziato la blatta senza pietà e senza la minima esitazione. Io invece no. Magari questo terrore degli scarrafoni è una semplice metafora dello stesso motivo per cui al mattino il mio essere abitudinaria rasenta la psicosi e che non ho ancora ben capito quale sia. Ad ogni modo sono rimasta almeno per 30 secondi pietrificata difronte all’imprevisto intruso senza riuscire forse nemmeno a respirare. E in 30 secondi uno scarrafone è capace di percorrere almeno un isolato di via Po e soprattutto di scomparire dalla nostra vista e nascondersi non so dove per iniziare a prolificare senza il minimo pudore. . E in quel mezzo minuto l’unica cosa che ho capito è che mi faceva troppo schifo e che era troppo vivo per riuscire ad ammazzarlo. Povera, debole creatura sono io sottomessa a tal punto ad uno scarrafone da non ritenerlo meritevole di morire (e questa potrebbe essere un'altra metafora ma di tutta un'altra storia, quella di ieri sera). L’unica cosa che mi è venuta in mente è stata di correre in cucina, prendere la paletta con la spazzola, verde a forma di foglia con le coccinelle (giusto per rimanere in natura) correre di nuovo in bagno trovando miracolosamente (a volte il fato ci è amico) la blatta ancora lì immobilizzarla con la spazzola trascinarla sulla paletta avere voglia di vomitare vedendolo correre come un pazzo sulle pareti della paletta per fortuna lisce correre fuori e con tutta la forza che può avere un’esile fanciulla come me lanciarlo dal terrazzo. Giu. Verso il cielo. Nel vuoto. Su via Po. Io spero e mi auguro e nel caso chiedo umilmente perdono, che il mio nemico non sia finito in testa ad un malcapitato alla fermata del tram. Se capitasse a me rimarrei traumatizzata per sempre e inizierei a girare con l’ombrello aperto anche con il sole e non credo che avrei gli stessi apprezzamenti che riceveva Rossella O’hara. Ho poi chiuso il lavandino con il tappo, abbassato l’asse del cesso e tappato il bidè e invece di fare la doccia sono andata a fare colazione. Ho pensato che come variante una blatta nel cesso fosse più che sufficiente per dissacrare il mio sacro momento del risveglio.

E ora speriamo solo che i cugini di scarrafone non scoprano dove abito perché dopo un lancio dal quarto piano ho paura che la vendetta possa essere definitiva.

Stasera arriva una sorpresa. Fra mezzora. Che mi cambierà la vita.

Maledetti rituali.

Accendo la tele e sento: “Il consumatore sta diventando sempre più professionista…si fa più colazione in casa che al bar….la gente inizia a farsi il pane in casa, per risparmiare…”.

Per quanto riguarda la colazione non ci sono dubbi. Io la colazione la faccio in casa. Non solo la faccio in casa, la colazione rappresenta per me l’apice di ritualità della mia esistenza quotidiana. Non so se si tratti di una sorta di tranquillante, un’oasi di sicurezza, per iniziare con i piedi di velluto la mia giornata o se invece sia una semplice manifestazione del fatto che credo profondamente nel potere dei rituali. So che un caro amico, poco tempo fa mi ha detto di provare ad essere più flessibile. Avrei potuto reagire male e offendermi  “flessibile? Ma come? Io sono già flessibile!”. Lui, senza minimamente scomporsi mi avrebbe risposto “ volevo dire…ad esempio, quando ti svegli cosa fai?”. Ora come ora non ricordo se me l’abbia chiesto davvero o se me lo sia chiesta da sola. So con certezza di non aver reagito male perché subito la mia mente pensando al momento della mia colazione si è resa conto della totale mancanza di flessibilità che caratterizza certi aspetti della mia vita. Questa è l’amicizia. Quando non sai nemmeno ricordare se la domanda te la sei posta da solo oppure no. Fatto sta che il compito della settimana era quello di cambiare anche di poco le mie abitudini mattiniere. Forse per molti sembrerà strano ma non ci sono ancora riuscita. Ci penso ogni giorno la sera prima di andare a dormire. Penso: domani, mi alzo e cambio abitudini. Le mie abitudini al mattino sono queste: dieci minuti prima che suoni la sveglia, io mi sveglio. Mi piace interpretarla come una gran voglia di vivere, vediamola così. Prendo il telefono in mano e controllo l’ora, per capire se sia meglio tentare di riaddormentarmi o se al contrario sia il momento giusto per iniziare ad alzarmi. Normalmente se mancano soli 5 minuti al suono della sveglia decido di alzarmi (in caso contrario vuol dire che mi sono svegliata alle 4 di notte e che la mia notte si trasformerà in un inferno per cercare di riaddormentarmi). Una volta che mi sono alzata per una frazione di secondo mi crogiolo nell’indecisione tra l’andare a fare la pipì oppure per prima cosa mettere su l’acqua per il Nescafè. Quasi sempre il piatto della bilancia pesa di più sull’andare a mettere su l’acqua per il Nescafè. Sempre con il pensiero, però, di ottimizzare i tempi e approfittare dei minuti necessari perché l’acqua cominci a bollire per andare a fare la pipì.  Allora entro in salotto, accendo la luce, accendo la musica, entro in cucina. Ma quando metto su l’acqua mi viene voglia di prepararmi la spremuta, allora inizio a tirare fuori la tazza per il Nescafè, il bicchiere per la spremuta e la ciotola per lo yogurti con i cereali. Poi taglio le arance, spremo le arance, verso la spremuta nel bicchiere, verso tre cucchiaini di Nescafè nella tazza, apro il frigo, scelgo lo yogurt, lo verso nella ciotola, ci ficco dentro i cereali, inizio a portare lo yogurt con i cereali e la spremuta sul tavolo in salotto, torno in cucina, la pipì mi scappa sempre di più, controllo l’acqua, vedo che l’acqua sta bollendo, la pipì ormai mi scappa troppo per cui faccio tutto di corsa, verso l’acqua nella tazza, per la fretta mi brucio un po’ ma non sento nulla penso solo alla mia pipì, tiro fuori le fette biscottate e la marmellata dal frigo, porto tutto correndo in salotto, la vescica sta esplodendo, correndo rischio di rovesciare il Nescafè, mi precipito in bagno e, ah, finalmente, faccio la pipì.

Maledetti rituali. Che oggi mi sono ritrovata con la bici in piazza San Carlo e per poco non mi schiantavo contro un pedone quando mi sono resa conto di essere uscita senza anello magico, senza orecchini e senza collana Afgana. Maledetti i rituali e benedetto il mio amico e la sua richiesta di essere più flessibile. Domani mattina, lo giuro sulla tazza di Nescafè, per prima cosa vado a fare la pipì e magari mi lavo pure la faccia con l’acqua fredda. Forse è per questo che adoro viaggiare. Perché quando viaggio, mi libero dei miei rituali. E lo prometto, agli amici soprattutto, cercherò di essere più flessibile.

Ok. Non le dico più certe cose.

Io sono al quarto piano. 

 “Una scossa! Eccola! L’ho sentita era una scossssa!”.

Non ho alzato il culo dal divano.
Ho chiamato la mia mamma.
La mamma non aveva sentito nulla.
Ho pensato...sarà stato il tram.
Vado in terrazzo.
Il tram non c'è.
Torno sul divano.
Chissà la nobil donna piemontese....

A Better place to Hide.

Cavolo. Stasera mi sono ritrovata a cena con una ragazza. C’erano anche un sacco di altre persone ma io ho cenato con una ragazza. Nel senso che c’era lei, e che è lei (per quella solita storia là che sono strana…) che ha dato un senso alla mia serata. Si perché c’è poco da fare, arrivati ad un certo punto persino i murazzi diventano banali. Per carità, ci fossero ancora certe persone non lo sarebbero banali. Perché c’erano una volta “persone” che riuscivano a rendere straordinario qualsiasi posto. E soprattutto qualsiasi persona. Cavolo. Dovrei dirlo  prima o poi ai Perturbazione. Si perché questa sera quando pensavo al senso della mia serata mi è arrivato un messaggio che mi parlava dei Perturbazione. E ripensando ai Perturbazione penso a quella serata in macchina mentre lei mi cantava i Perturbazione e penso come da quel giorno i Perturbazione siano diventati una costante speciale della mia vita. E penso che prima o poi lo racconterò, dei Perturbazione e di quella serata. Sarà per questo che oggi faccio fatica ad ascoltarli i Perturbazione. Li ascolto Pianissimo fortissimo, perché la vita a volte va fortissimo e ora sta andando troppo forte e appena rallenta un attimo mi sento svenire per lo scompenso. E stasera una ragazza ha dato un senso alla mia serata e a tante altre cose. I need. I need a better place to hide. Credo di averla ascoltata 400 volte in un solo giorno questa frase di quella canzone là. Tanto che ad un certo punto le mie colleghe credevano di avermi persa. Si perché dal di fuori anche io avrei pensato lo stesso. Da dietro, con i capelli lunghi lunghi non più ricci perché il lavoro me li ha stirati, con le cuffie che nessuno vedeva, mentre ascoltavo con un volume esagerato “i need. I need a better place to hide. I need to know. I need to know tonight” e nel frattempo mi massaggiavo le mani per cercare di fare assorbire la crema che tutti i giorni appena arrivata in ufficio mi metto sulle  mani perchè sono distrutte per colpa dei detersivi, si perché non uso i guanti a casa quando lavo i piatti, perché i guanti non riesco a capire perchè si riempiono d’acqua sul fondo delle dita e quando li infilo oltre ad una spiacevole sensazione umidiccia mi lasciano addosso un’orribile puzza di marcio che per toglierla mi devo rilavare le mani con il sapone per i piatti. Ad ogni modo io avevo la musica altissima nascosta dai capelli lunghissimi e mi massaggiavo fortissimo la crema sulle mani  cercando un posto migliore dove nascondermi e non rispondendo ad una mia collega che mi stava parlando da due minuti hanno creduto di avermi persa. E con quell’avermi persa intendevano probabilmente è andata. Caput. Si è cimita. Un po’ come una novantenne. Ed è il semplice fatto che l’abbiano pensato anche solo per un secondo che credo dovrebbe preoccuparmi. Ma ora preferisco non chiederemelo e ritorno alla ragazza con cui ho cenato questa sera. E ai Perturbazione. E al fatto che “i need. I need to know tonight” quello che devo fare per arrivare dove voglio arrivare. E se c’è qualcuno, da qualche parte che in questo momento mi sta pensando e che sta pensando alle stesse cose che penso io, allora qualcun altro, oltre alla ragazza con cui ho cenato questa sera e ai Perturbazione e alla mia ossessione sul trovare “a better place to Hide”, sta dando un senso a questa mia serata e a tutto questo: al fatto che ci credo, che tutti i sogni per cui sto lottando, che ogni sentimento su cui mi sto impuntando, siano possibili da realizzare. Basta crederci e stasera ci credo. E mi nascondo un attimo qui, finché non trovo un posto migliore, quello di quelle due braccia là, che sognerò stanotte, che mi stringono e mi tengono al riparo per un attimo dal resto del mondo.

Pasquetta o non pasquetta, la questione dei rimpianti.

Parti o non parti parti o non parti. Parti. Ma quante sono le volte che una decisione costa una rinuncia? Quasi sempre. Tranne che per quegli strani astrologici momenti in cui tutto sembra cadere dal cielo senza che tu abbia fatto nulla per ottenerlo. Tutto sembra cadere dal cielo a meno che tu sia uno di quegli strani esseri umani che dietro ogni cosa che accade legge uno strano, preciso, matematico disegno per cui ogni azione che hai compiuto ha contribuito a farti piovere dal cielo quella roba lì. Bene. Io sono uno di quegli esseri umani (O alieni o fate. Non lo penso io lo pensa qualcuno. Io penso solo di essere un po’ strana). Ogni cosa che mi accade viene dal mio cervello rapidamente rielaborata e tutto trova un senso, una spiegazione, una logica, tutto pare incredibilmente perfetto se non per un motivo: quasi mai, alla fine accade quello che speravo che accadesse. E nell’ultimo periodo mi è caduto dal cielo tutto quanto. Bene. Detto questo. Sicuramente anche io rientro negli stereotipi. Si perché dal di fuori, potenzialmente oguno di noi rappresenta uno stereotipo. Io sono lo stereotipo Amélie, fricchettona fighetta, ribelle per dimostrare qualcosa a qualcuno, romantica stile Beverly Hills 90210, Pollianna. Bene. Non riesco ad uscire dagli stereotipi a meno che io pensi che lo stereotipo sia un’etichetta che qualcuno ti appiccica addosso e che la percezione di chi sei dipenda soltanto da te stesso. Bene. Rimane il fatto che io sono io, che quello che ho vissuto lo conosco soltanto io, che la mia storia non è uguale a quella di nessun altro, che questo, credo, spero, faccia di me un individuo. Bene. A questo punto. Ritorno al punto non punto. Parto o non parto. Parto. E dentro questo parto, oltre ad un potenziale cesareo ci sta tutto quanto. Ci sta la mia primordiale contraddizione personale: istinto e razionalità allo stato purissimo. Parto perché mai nella vita mi sono tirata indietro difronte all’ignoto, ma parto con un salvagente, una pinna (non due perché una la dimentico a casa) un tom tom che non riesco a capire  e una bussola che non so leggere. Quindi mi ritrovo di nuovo qui. Son partita, partita in quinta, ho camminato un po’ sulla luna, mi sono sentita dire per l’ennesima volta “sei un essere speciale”, mi sono sentita lusingata dal fatto di sentirmelo dire, il cuore non ha fatto una piega si è solo pompato un po’ e la persona per cui il mio cuore non solo ha fatto una piega ma ha fatto un volo pindarico, emozionale, distruttivo, eccessivo, stravolto….non risponde. Ad un semplice messaggio non risponde. E secondo voi perché non risponde? Perché dietro quel semplice messaggio ci stavano dietro tutte queste cervellotiche rielaborazioni da Amélie, fricchettona fighetta, ribelle per dimostrare qualcosa a qualcuno, romantica stile Berverly Hills 90210, Pollianna. E quindi dico. Parto. Poi non arrivo da nessuna parte. Ma va bene così. Perché in quella piccola, minuscola frazione di secondo, durata più di una settimana io mi sono sentita la persona più felice del mondo o se non felice mi sono comunque affacciata al balcone del terrazzo magico della mia casa magica e ho pensato cose che mai avevo pensato prima e ho creduto di poter volare e se non fosse arrivata la mia più cara amica che per caso ha trovato casa al secondo piano del mio palazzo forse mi sarei buttata giù pensando di poter volare davvero tanto ero felice e ora….e ora ho i piedi per terra. Lo stomaco sottosopra e continuo a credere fin o in fondo nell’amore che sento e nel fatto che non riesco a leggere le bussole. Bene. Parto.Ora parto di là. Vado a fare il bucato perché domani non avrò tempo e penso: Bene. Ho fatto un altro volo ora ricominciamo a camminare dove capita, cercando di evitare le merde gialle di cani che a veder il colore della loro merda mi viene da pensare che c'è chi sta peggio di me.

Il bancomat nuovo e la scossa di terremoto.


Oggi mi sono svegliata con questa certezza. Qui c’è un sacco di gente che vorrebbe il terremoto. Si si, qui a Torino. E questa gente è ovunque, è accanto a noi, sul tram, al supermercato. Si ti vedo, sei tu, vecchiettina maledetta. Seduta sul tuo divano di velluto bucato dalla brace della pipa del tuo defunto marito, dietro i tuoi occhiali tempestati di brillanti ingialliti dal tempo nascondi due occhi che non vedono l’ora di poter gridare aiuto. Senza scomporti troppo però. La pettinatura deve sopravvivere, anche ad un terremoto. “Una scossa! Eccola! L’ho sentita era una scossssa!”. Anche se è stato il tram che come tutti i giorni alla stessa ora le ha fatto tremare le sue abbondanti chiappe, la nobil donna piemontese corre verso il telefono per chiamare sua figlia e dirle che ha appena sentito il terremoto. Strano che la sua preoccupazione non sia invece stata quella di correre in strada per mettersi in salvo se davvero è convinta di aver sentito una scossa. Non è il terremoto in sé ad essere desiderabile ma il gusto per le calamità naturali, il gusto per quegli eventi collettivi che sconvolgono per forza di cose la routine e la quotidianità di un ampio gruppo di persone. Si perché una tragedia individuale non è la stessa cosa di una tragedia che si può condividere. Anche perché in una tragedia collettiva rimane comunque sempre quella percentuale di probabilità di non essere proprio colpiti direttamente e di conseguenza di avere un sacco di telefonate da fare e di cose da dire. E questo desiderio, inconsapevole (se chiedessi una conferma della mia tesi a quella vecchietta maledetta probabilmente mi tirerebbe in testa la sua borsetta di coccodrillo) nasce dall’umano, universale bisogno di sentirsi vivi. E ognuno ha il suo modo per sentirsi vivo. Desiderare un terremoto lo ritengo un metodo discutibile ma tant’è. È lo stesso motivo per cui io ogni tanto devo fare qualche cazzata. Piccole cazzate, che se proprio non rappresentano una dimostrazione particolarmente elevata della mia esistenza sulla terra per lo meno mi rallegrano le giornate e che sommate una all’altra sicuramente fanno di me una gran rincoglionita. E me le rallegrano perché preferisco riderci su perché volendo potrei farmi un piantino o flaggellarmi a ripetizione. Sono sempre scelte d’altronde. Ultimamente di cazzate ne ho collezionate una serie. Nel giro di pochissimo tempo mi è caduto uno dei miei anelli preferiti nel lavandino di un ostello che puzzava di fogna, e non ho fatto una piega perché mi capita talmente spesso che ci ho fatto l’abitudine e ho pensato che dovesse essere un buon motivo per tornare finalmente in quel posto dove me l’avevano comprato e dove devo tornare da tre anni e non ci sono ancora tornata. Ho perso per un mese la carta d’identità e non me n’ero accorta, me ne sono accorta perché l’altra sera mia madre mi ha detto “tieni, devo darti una cosa” e mi ha messo in mano la mia carta d’identità e ci ho messo un attimo a capire perché la mia carta d’identità non fosse nella mia borsa dentro il mio portafoglio. Ho passato  due giorni a cercare un’agenda che mi sono comprata perché mi piaceva tantissimo perché fuori è fatta come se fosse una bibbia e dove sto cercando di scrivere il mio vangelo, per poi ritrovarla in fondo ad uno  zaino dopo aver finalmente fatto le pulizie, e sentirmi per un attimo felice prima di dimenticarmi che cosa ci volessi scrivere. Ho perso il cellulare per mezza giornata, mandato uno sconfinato elenco di mail a tutti gli amici e i parenti per avvisarli della triste perdita e perché nessuno si preoccupasse se non rispondevo e ho poi scoperto che il cellulare era semplicemente dove doveva essere, nella mia borsa in mezzo a palline di scontrini del 2008 e cicles che non ho avuto cuore di buttare per terra perché rispetto la natura e soprattutto le suole altrui,  e che per questo, quando hanno perso il loro favoloso succoso gusto, li ho accuratamente appallottolati negli scontrini del 2007. In questo momento posso anche immaginare che qualcuno piuttosto che fare le cazzate che faccio io preferirebbe sentire una scossa di terremoto. Io invece oggi mi sento fortunata di essere nata in Piemonte e non in Abruzzo. Perché nonostante le cazzate che faccio sono viva, sto bene, ho una casa, un lavoro  e soprattutto non ho perso nessuno. E forse questo è ciò che si dimentica la vecchietta quando trascina il suo grande culo verso il telefono gridando aiuto. Che queste calamità, queste tragedie dovrebbero solo farci alzare con il sorriso e ricordarci che la vita è preziosa sempre e merita rispetto.E soprattutto che esistono soluzioni più felici per sentirsi vivi dell’inconscio desiderio che arrivi un terremoto.

 

Ultima cazzata. Da un mese il bancomat mi fa ritirare i soldi solo nella mia banca e non nelle altre. Mi dicono che la carta non è abilitata. La cosa più ovvia sarebbe stato ovviamente chiamare la banca. Ma non l’ho fatto. E l’altro ieri mi è arrivato (cioè è arrivato a casa dei miei perché la banca non si fida a mandarmi le lettere nella mia nuova residenza) un nuovo bancomat. Solo che ora non so che farci con questo nuovo bancomat. Ma per fortuna domani sono in vacanza e magari prendo la bici e vado in banca.

Ricordi di settembre 2008.

Sono le sette del mattino. Reduce da dieci ore di pulman senza sonno accanto ad un francese che mi russa nell’orecchio. Mi diverto a guardare la posizione della gente mentre dorme. Una testa penzolante, una fronte schiacciata contro un finestrino, le ginocchia tirate su che spingono il sedile davanti. Quando apro la tendina blu spessa e puzzolente mi abbaglia il primo raggio di un sole che mi riscalderà il sangue per tutta la vita. Arrivo in spiaggia. La sabbia è così bianca che mi acceca. Sole nel cielo, sole per terra, sole sottacqua. Guardo l'oceano e ho pensato come forse hai pensato tu la prima volta che ci sei arrivato, di aver trovato il paradiso. C’è pocchissima gente. Mi dicono che è tutto pieno ma io non vedo nessuno. Solo dopo qualche giorno inizio a capire che qui i ritmi sono solitari e silenziosi. È il corso della luce e la corrente del mare a regolare il nostro respiro. Conosco te. Sento qualcosa. È ancora inconsapevole, inafferrabile, non ha nome e non ha una definizione. È uno sguardo. È la pelle che anche solo sfiorandosi per sbaglio si riconosce subito. Ce ne sono pochi di incontri come questi nella vita. Sono quelli che bruciano così intensamente e con così tanta forza da lasciare un meraviglioso segno indelebile dentro di noi e che spesso, con la stessa rapidità con cui si accendono, con la stessa, si spengono. Appena mi tolgo gli occhiali scuri e lascio che tu veda i miei occhi ho pensato “ecco, questo è un altro incontro dell’anima”. E nel momento in cui ci siamo visti ci siamo anche persi. Uno nell’altro. Poi dal paradiso cado dritta nell'inferno. Quello del dolore di una perdita, dello spavento di fronte alla morte, della paura e di un incubo che ritorna e che ora capisco, non si può pretendere di non vivere mai più. Una persona che un giorno c'è e il giorno dopo non c'è più. Ed è così inaspettato che ancora oggi ogni tanto credo che la mia amica debba tornare dalle vacanze. Prima o poi. O forse, semplicemente, rimarrà in vacanza per sempre. Ma in quel momento ho sentito le urla dell’infinto. Urla che non si cancelleranno mai. E tu mi raccogli, in un abbraccio, mi tieni su con la punta delle dita quando sono ad un centimetro dalla sabbia. Tu ci credi nel fatto che in un abbraccio ci possa essere già tutto quanto? Tutto il passato e il futuro? Io ci credo. Nonostante tutto. Io ci credo. Solo che la vita non è solo aria la vita è anche umida. Quel giorno ti sei preso cura di me. Ma non c'è stato solo pensiero, c'è stata la nostra pelle che oltre a riconoscersi ha iniziato a provare un doloroso bisogno reciproco. Quel bisogno che ti fa dire, “ho sete”. Sempre più sete. E in quel momento, mi sono chiesta come fosse possibile provare dolore, amore, passione, tristezza, felicità nello stesso istante. Ed c’era così tanto dentro di me che ho smesso di parlare. Ed c’era così tanto dentro di me che non ho potuto fare a meno di accettare. Tutto. E quando un giorno mi hai detto "è stata una settimana difficile". In quel "difficile" ho capito che tu avevi sentito insieme a me esattamente tutto quello che avevo sentito io. E mi sono chiesta cosa ci fosse di reale in questo dolore e in questa felicità. Perché molte volte nella vita ho sentito tutto con una tale intensità, da sentire per due. E nel momento in cui mi sono spenta per un attimo...non è rimasto più nulla. Tu cos'hai sentito oltre a quello che ho sentito io? Ma forse non mi importa saperlo. Perché tutto quello che ho sentito è reale per il semplice fatto che l'ho sentito. Perché so chi sono. E che qualsiasi sentimento prezioso è per sempre. Anche quando ad un certo punto rimane solo un ricordo. Ora non vedo solo magia ma vedo anche la terra e la sua umana umidità. E mi piacerebbe tanto ora vederla anche con i tuoi di occhi la nostra realtà. Perché mi mancano, i tuoi occhi. Perché voglio difendere i miei bei ricordi. E perché le parole a volte aiutano a sentirsi più vicini. E so che se sono partita pensando di trovare qualcosa…Così è stato. Perché ho trovato una grande lezione. Quella di imparare ad accettare.

Il risotto e la sostanza.


Anche io ho i miei difetti. Il primo, il più difficile da comprendere è accettare il fatto che ogni tanto io abbia bisogno di farmi i fatti miei. Forse pare strano, che a volte io non abbia voglia di chiacchierare, di andare a prendere il caffè in due, di andare a fare la spesa in due, di andare in farmacia in due. Soprattutto sono sempre stata assolutamente incapace di parlare tanto per farlo. Sostenere una di quelle conversazioni che tanto piacciono alle donne su smalto, vestiti, cucina, o spettegolare con la schermata di facebook sotto gli occhi rappresenta per me una vera e propria tortura. Divento così insofferente che oltre ad entrare immediatamente in standby, non guardo chi mi sta parlando e mi metto a fare altro. È più forte di me. Forse il mio cinismo sta raggiungendo dei livelli che non credevo possibili, ma negli ultimi giorni ho un pensiero ricorrente: la vita è breve e il mio tempo lo voglio sfruttare per conoscere e scoprire ed evolvere attraverso esperienze di qualità, profonde nel bene e nel male. Che sia una risata o un pianto pretendo che sia intenso, vero, qualcosa che ripensandoci il giorno dopo o anni dopo consideri meritevole di aggiudicarsi il titolo di “ricordo”. Il tempo. Ho una strana ansia nei confronti del tempo. Mi sento in dovere di non perdere tempo. Di non sedermi se c’è un problema e di cambiare le cose quando non vanno come vorrei. Per lo meno sapere di averci provato. Non esiste per me la frase “eh va beh io sono fatta così”. Eh va beh se sei fatto male datti da fare per vivere meglio e di più. E soprattutto smettila di lasciarti vivere. Non sopporto chi si piange addosso.

Ed è per questo che ormai, alcuni momenti liberi della mia giornata si sono trasformati in un perenne tentativo di fuga da discorsi noiosi e da chi perennemente sulla difensiva per ragioni che non ho nemmeno voglia di approfondire, trasforma quello che potrebbe essere uno piacevole scambio in un inutile gioco di ruolo. Non che io non abbia le mie forme di difesa. Ma le mie, credo di poterlo affermare con certezza, non rompono le palle a nessuno se non a me stessa. Non sopporto chi si prende troppo sul serio, su questioni che non sono davvero serie, chi ha paura di fare per un attimo il coglione per paura di essere considerato coglione e basta. Non sopporto chi cita nomi di scrittori, poeti, registi, libri, giornalisti, specialisti, enigmisti, ogni due parole e quando deve metterci un po’ di sostanza propria il foglio rimane vuoto. Che senso ha conoscere a memoria tanti nomi se poi non riesci a formulare un pensiero tuo? Se ho voglia di fare la stupida per vivere un attimo di spensieratezza lo faccio, senza paura di essere considerata stupida davvero….o forse il punto è che non mi pongo proprio il problema.
Ma ritornando ai miei momenti di pausa…
Oggi si parlava di risotto. Le giovanissime appena andate via dalla casa di papà e mamma per avventurarsi in una quiete convivenza con i fidanzati, affascinate dal fatto di potersi finalmente dedicare alla fedele riproduzione del ruolo di casalinghe imparato dalle proprie madri, mi raccontano per filo e per segno le appassionanti avventure/sventure di risotti riusciti male a causa di un inaspettato ritardo degli ospiti. Alla parola risotto mi è già scattata l’insofferenza. Aspetto il momento giusto per non sentirmi dire “vengo anche io” e scappo sotto il sole. Da sola, sorridente, felice. E mi rendo conto che spesso c’è già abbastanza rumore inutile nella mia testa e non ne voglio altro. E da sola posso mettermi a leggere, posso scrivere, posso guardare un film, posso guardarmi intorno… E il silenzio ritorna. E io posso fare un po’ di ordine dentro di me ripensando a cos’ho fatto e cosa voglio fare. Forse mi sono abituata troppo bene al fatto di non dover render conto di niente a nessuno. Forse faccio così perché in certi momenti do tutta me stessa. Quando ci sono, ci sono, e “ti solleverò dai dolori e dai tuoi sbalzi d’umore dalle ossessioni e dalle tue manie”, non sempre però. Anche io ho bisogno di arricchirmi e se cerchi di volermi sempre tutta per te, se cerchi di prendermi non ci riesci. Perché scivolerò dalle tue mani e ricomincerò a nuotare. Per un semplice motivo. C’è troppo da vivere. E ho la pretesa di pensare che l’amore e l’amicizia debbano essere un’amplificatore della libertà. La libertà di accompagnarsi senza possedere. 
E c’è chi mi accompagna e io accompagno da sempre e lo farà per sempre. 
E a me questo basta, per sentirmi più sicura, quando cammino da sola.