Sulla sedia in terrazzo c’è ancora una tovaglia, due asciugamani un tappetino per la doccia e un posacenere. La casa è incredibilmente in ordine. Ho disfatto la valigia appena sono rientrata in casa, ho ritirato il bucato steso, ho buttato via i giornali vecchi e ho pulito le tazze incrostate di zucchero e caffè. Ce la posso fare. Posso ritornare a casa senza avere paura dei miei passi. Posso entrare in cucina senza dover stare attenza ai fiocchi di cereali sparsi per terra e alle cartine del te che si incastrano in mezzo ai fornelli prendendo fuoco ogni volta che metto su l’acqua. Posso anche evitare di dovermi difendere da una nuvola di moscerini attirati dall’umidità causata dalla perdita che da mesi allaga l’armadietto sotto il lavandino. Perché, in attesa che venga l’idraulico, posso ad esempio ricordarmi di chiudere il rubinetto dello scarico dell’acqua dopo aver fatto il bucato. Sì ce la posso fare. Posso anche iniziare a crescere. Andare a lavorare pensando solo a me stessa e non alle persone con cui lavoro. Entrare in ufficio, comportami con distaccata professionalità ed evitare di instaurare un rapporto di stima, affetto, comprensione, condivisione. Posso fare semplicemente quello che devo fare. Senza provare, senza sentire. Posso imparare a rimanere fredda, distaccata. Posso imparare a rimanere impassibile. A non ridere quando sono felice e a non piangere quando sono triste. Posso fingere. Posso accontentarmi del primo uomo che mi capita e smetterla di credere di poter essere salvata. Posso annuire, mentire e smettere di sognare. Posso evitare di emozionarmi per qualunque cosa. Posso evitare di commuovermi per un concerto, un film, una notte d’amore, un attimo di respiro dopo l’afa africana, una fiaba inventata per me e una mail ricevuta. Posso assolutamente evitare di affezionarmi a persone che non ho quasi mai visto. Posso smettere di dire la parola, che so, può far soriddere chi sta male. Posso dimenticarmi della capacità di credere e di dare fiducia. Posso. Ma non voglio.
La casa è in ordine, la cucina è asciutta, il pavimento è pulito e profumato. Forse per questo invece di rimanere sul divano questa notte preferisco distendermi con un asciugamano, una tovaglia e un tappetino per il bagno, per terra, sul terrazzo.
Guarda. Guarda laggiù sul tetto in mezzo ai camini. La vedi quell’ombra scura? Sembra proprio una civetta! Probabilmente non lo è. Se lo fosse, sarebbe già morta, soffocata da tutto l’inquinamento che c’è. Non importa. Posso provare a credere anche solo per una notte che lo sia. Perché le civette portano fortuna e ne avrò bisogno ora che ho deciso di continuare a crescere come voglio io.
Attività mentale che si svolge grazie al cielo solo durante il sonno, caratterizzata da impressioni visive degne di una tragedia greca, sensazioni e pensieri non coordinati tra loro logicamente ma esprimenti tutte le parti di me, anche quelle che non sopporto. Voci, quelle che ho chiuso in un cassetto così profondo che si apre solo quando dormo. Ermytage è la fase in cui il cassetto si apre e le immagini vengono liberate. Di Anna Ponti.
Valigie sul pavimento.
Sfacettature silenziose. Negli occhi troppo piccoli. Nel sentire senza dire. In un sorriso cupo. Una scarpa per terra, una lettera mai aperta, un codice dimenticato. Il file non si apre. L’applicazione non è aggiornata. Poche ore già sono troppe. Poche ore sono troppo poche. Le molecole non sono compatibili. Butto i vestiti in una valigia. Una valigia nuova più piccola di quella del giorno prima. Non disfo le valigie. Il pavimento è pieno di valigie ancora piene. Non voglio portarmi dietro nulla per non dimenticare nulla. Dimentico comunque qualcosa. Mi dimentico come si fa a dire voglio andare via. Mi dimentico come farsi chiedere di restare. Un viaggio lungo i binari. Il paesaggio non ha dettagli è solo un temporale. Attraverso il temporale. Mi addormento. Sogno che sono le 8 del mattino che è domenica e che c’è troppo rumore. Riapro gli occhi e il temporale è finito. Ricomincio a respirare piano. La città mi accoglie un’altra volta a braccia aperte. Afa. L’Afa è finita. C’è solo più il sole e l’aria è asciutta. Ritrovo il mio orizzonte. È nitido. È perfetto. Non posso vivere in una città senza orizzonte. Non esiste una città possibile se non c’è un fiume. Se non vedo le colline non posso fuggire. Trascino i piedi sul pavé. I sandali cercano di starmi dietro. Riapro casa. Butto sul pavimento un’altra valigia. Sembra ancora più piccola di prima. Non mi fermo. Non mi soffermo sulle immagini. Le immagini mi inseguono. Sotto la doccia qualcuno mi sussurra parole finte in un orecchio. Sembrano delle caricature ma non lo sono. Sono maschere che forse nascondono il nulla. Stacco le cuffie. Spengo lo stereo. Rivoglio il mio silenzio. Lasciatemi solo le sensazioni. E l’intensità. I pezzi non si incastrano. Li lascio dove sono. Non voglio unire i puntini e non voglio capire. Non riesco a chiudere l’acqua. Domenica mattina. Sono le 11 e non c’è rumore. Sulle montagne c’è ancora un po’ di neve. La neve presto scomparirà perché io sto di nuovo correndo verso il sole. Mi brucio e non me ne accorgo. L’attenzione è dentro di me. Fuori c’è solo troppa umidità. Sfacettature silenziose. In una luce che vedo solo io. In un capitolo senza capo ne coda. Prendo in mano la valigia più piccola e comincio a disfarla e ci trovo dentro un pensiero che avevo dimenticato. Non ci siamo divertiti. Abbiamo fatto l’amore.
In alto a sinistra.
Ti parlo tenendo gli occhi bassi. Sono troppo densa. Così densa che le spalle mi cascano all’ingiù. Sollevo per un istante lo sguardo per poi tornare a fissare le mie mani che non so bene dove mettere. Si dice che guardiamo in alto a sinistra quando siamo alla ricerca di un’immagine. Non so quale immagine io stia cercando ora. Forse quella di me vestita con una gonna lunga mentre danzo ad una festa di paese. Una sagra per esempio. Di quelle unte e colorate dove puoi permetterti di prendere un vecchietto per mano e farlo ballare con te regalandogli un quarto d’ora di leggerezza. La mano che appoggi sul mio ginocchio mi riporta vicino a te. La piazza si è svuotata, l’orchestra ha smesso di suonare e il vecchietto è di nuovo seduto con un bianchino e il suo silenzio. Sono troppo densa. Te ne accorgi anche tu. Per questo ritiri velocemente la tua mano. Forse stiamo solo presupponendo molte cose. Io presuppongo che tu non veda l’ora di andartene. Tu presupponi che io non abbia bisogno di te. Il risultato è comunque una assoluta reciprocità di tempi. Metto le sigarette nella borsa. Tu afferri la sedia e provi ad alzarti. Per un secondo rubo un’immagine nuova. L’immagine di me che sorrido e chiudo gli occhi per prendermi l’abbraccio che hai deciso di darmi. L’immagine di me che mi aggrappo alla tua maglietta perché mi piace. L’immagine di noi. In quel momento il mio sguardo cambia.Le mie particelle si separano una dall’altra e iniziano a dividersi, a moltiplicarsi e a muoversi velocemente. Non sono più fango sono di nuovo acqua che scorre. Ti guardo. Ti vedo. Tu ti alzi, prendi la tua sedia e la avvicini alla mia. Tu vedi me che chiudo gli occhi mentre mi abbracci. Tu vedi me che mi aggrappo alla tua maglietta che non ti piace. A volte un pensiero può trasformare un’immagine in un respiro. Riapro gli occhi e scivolo via dalle tue braccia rimanendo presente. Un vecchietto si alza e abbandona il suo tavolino. Prima di scomparire dietro l’angolo, si volta e mi regala un sorriso. Tutto può essere. Tutto può essere più semplice di così. Basta un pensiero, il cuore e un gesto.
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